Psicologo Psicoterapeuta Torino e Chieri - Dottore Alberto Migliore
  • HOME
  • CHI SONO
  • DOVE RICEVO
  • CONTATTI
  • BLOG
  • PRENOTA UNA VISITA

Psicologia e salute mentale – l’importanza del ruolo del genitore

19/4/2016

0 Comments

 
Immagine
“Stimolo e risposta” sono le interazioni che formano l'architettura del cervello. Quando un bambino comunica attraverso il verbale, il non verbale e un adulto risponde adeguatamente, in sintonia, per mezzo del contatto visivo, delle parole, un abbraccio, etc… succede che le connessioni neurali si costruiscono e/o si rafforzano nel cervello del bambino influenzando il suo futuro sviluppo, le abilità comunicative e sociali. 
La modalità di reazione del caregiver è essenziale nella costruzione dell’architettura mentale, l’assenza o l’inadeguatezza perpetuata è una grave minaccia per lo sviluppo del bambino e del suo benessere in particolare se le risposte dell’adulto sono inaffidabili, inadeguate, o semplicemente assenti, l'architettura dello sviluppo cerebrale può essere interrotta, e la successiva salute fisica, mentale ed emozionale può essere compromessa. La persistente assenza di sintonia e adeguata restituzione agisce come un "doppio smacco" per lo sviluppo sano del bambino: non solo il cervello non riceve lo stimolo di cui ha bisogno, ma la condizione di mancata sintonia, inondando il cervello, in via di sviluppo, con gli ormoni dello stress, potenzialmente dannosi.
Contribuire a incentivare le capacità dei caregivers può influenzare e rafforzare un’ambiente sufficientemente adeguato, fatto di relazioni essenziali per l'apprendimento, la salute e il comportamento dei bambini. Posso essere diversi i fattori che influenzano un’inadeguata sintonia tra adulto e bambino: problemi finanziari, la mancanza di una adeguata rete sociale, o problemi di salute cronici. Si è rilevato che i caregivers che sono a più alto rischio di fornitura di cure inadeguate spesso vivono contemporaneamente molti di questi problemi. È importante intervenire sulle famiglie, non solo attraverso un sostegno psicologico, ma anche attraverso Politiche e programmi che rispondano alle diverse esigenze dei caregivers che li aiutino a impegnarsi nel difficile compito del contribuire a sostenere lo sviluppo sano dei propri figli.
 
Fonte:
http://developingchild.harvard.edu/science/key-concepts/serve-and-return/


0 Comments

Genitori e trasmissione dell’ansia, come prevenire.

14/10/2015

0 Comments

 
Immagine
La ricerca scientifica afferma che i figli di genitori ansiosi sono più a rischio di sviluppare un disturbo d'ansia. Ma c'è una buona notizia per i genitori ansiosi: si può ridurre questo rischio con degli interventi di prevenzione psicologica.
Secondo la ricerca pubblicata sul The American Journal of Psychiatry la psicoterapia e il cambiamento degli stili genitoriali potrebbero essere in grado di proteggere i bambini dallo sviluppare dei disturbi d'ansia. I ricercatori, guidati dalla professoressa di psichiatria Golda Ginsburg, del Department of Psychiatry UConn Health, Connecticut, hanno esaminato 136 famiglie. Ogni famiglia aveva almeno un genitore con diagnosi di disturbo d'ansia e almeno un figlio nella fascia di età da 6 a 13 anni che non aveva ancora avuto una diagnosi psicologica di disturbo d'ansia.
Circa la metà delle famiglie hanno ricevuto una psicoterapia, mentre l'altra metà ha solo ricevuto un opuscolo di 30 pagine che descrive i problemi correlati all'ansia, senza strategie specifiche per ridurla.
Dopo un anno, solo il 5 per cento dei figli di genitori che hanno ricevuto una psicoterapia è stato diagnosticato un disturbo d'ansia. Tra le famiglie che hanno ricevuto solo il volantino, la percentuale è balzata ad oltre al 30 per cento.
"La questione fondamentale è: una volta appurato che il disturbo d’ansia, così come può accadere in altre forme psicopatologiche, può avere una forma di trasmissione famigliare si può impedire ai propri figli di sviluppare tale disturbo?" secondo la Ginsburg, che ha condotto lo studio con i colleghi della Johns Hopkins University, la risposta è sì, ma bisognerà vedere i dati futuri di questa ricerca. Gli studiosi continueranno a monitorare queste stesse famiglie grazie ai finanziamenti del National Institute of Mental Health. Verificheranno se i figli delle famiglie che hanno ricevuto l'intervento terapeutico andranno a sviluppare un disturbo d'ansia più tardi durante l'adolescenza o la prima età adulta.
Il lavoro della Ginsburg ponte l’attenzione sulla prevenzione, un modello di salute mentale che parte da quelle famiglie e/o persone a “rischio”, con la finalità di intervenire su quei fattori che intervengono nel riprodurre la condizione di sofferenza mentale.
 
Fonte:
http://www.npr.org/sections/health-shots/2015/09/25/443444964/parents-can-learn-how-to-prevent-anxiety-in-their-children?

0 Comments

La salute mentale nei bambini

28/5/2015

1 Comment

 
Immagine
A che età si può parlare di salute mentale? In genere sentiamo parlare di salute mentale nel contesto di un problema – un collega sta lottando nella gestione dello stress sul posto di lavoro, il figlio di un amico sta avendo problemi comportamentali a scuola, o un membro della famiglia ha ricevuto una diagnosi di disturbo psicologico, come la depressione, o un disturbo d’ansia. Quasi sempre, queste discussioni sono limitate ai bambini più grandi, adolescenti e adulti. Quindi si pone la domanda: quando comincia la salute mentale? Si può parlare di salute mentale nei bambini?

La relazione bambino genitori è fondamentale per il benessere psicologico. I primi giorni, mesi e anni di vita del bambino e il rapporto che si crea con l’adulto, che si prende cura di lui, è un incontro che se è funzionale è in grado di promuovere la salute mentale dell’infante.

Vediamo il mondo con gli occhi di Silvia, 3 mesi, che ha fame e comunica questo bisogno attraverso il suo pianto.

“Dal primo giorno che ti ho conosciuto ho imparato che quando ho fame tu vieni da me con il cibo, questo mi fa capire che hai compreso le mie esigenze e hai risposto a queste. Questo mi fa sentire amata e importante, e mi fa sapere che posso fidarmi di te e così mi sento al sicuro. Mi piace essere coccolata mentre mangio. Ma mi piace anche esplorare, scoprire cosa sta succedendo intorno a me. Osservo i volti che mi sono vicini, cerco di capire da dove provengono tutti questi rumori. Ho anche voglia di afferrare con le mie dita i tuoi vestiti, o semplicemente il tuo sguardo, mi piace ricompensarti con un bel sorriso, so quanto questo ti faccia piacere. Sento forte dentro di me l’importanza del potere della nostra relazione. L’ora dei pasti è qualcosa di speciale e per me molto di più di un semplice magiare”.

Quello che Silvia e i suoi genitori stanno imparando è come una danza; la danza dello sviluppo. Un passo dopo l’altro si impara a comunicare, a comprendere le necessità del proprio figlio. Un ritmo delicato ma costante che è alla base di quel processo chiamato “attaccamento”. Quello che i genitori stanno costruendo è una “base sicura” per Silvia, una condizione necessaria per il futuro sviluppo sociale ed emotivo - un inizio positivo per il suo benessere psicologico. È su questo fondamento che si costruirà il futuro della sua salute mentale.

È importante riconoscere che la salute mentale non è qualcosa che appartiene solo agli adulti, adolescenti o bambini più grandi. I bambini dalla nascita hanno una loro "salute mentale" che va tutelata, diventando così un fattore di protezione contro la sofferenza psicologica.  Questo processo inizia con la danza (sintonizzazione) tra genitori e figli che si svolge durante i momenti quotidiani, come l'alimentazione, il gioco, il cambio, etc., che sono in realtà momenti straordinari se le si guarda con gli occhi di un bambino.

Quindi, come possiamo, come i genitori, operatori sanitari e professionisti, promuovere la salute mentale di un bambino?

La ricerca mostra che la capacità di entrare in sintonia con i propri figli, creando un’adeguata connessione, da una forma all'architettura cerebrale dei neonati e ha un impatto positivo a lungo termine sul futuro sviluppo mentale. 

In primo luogo diventa importante cercare di capire il significato che sta dietro alla condotta dei bambini piccoli. I loro comportamento ha sempre un senso. Se si riesce a comprendere che cosa guida il comportamento, sarà più facile entrare in sintonia con loro. Immaginate un genitore che ha imparato che il suo bambino ha bisogno di tempo nell'affrontare delle nuove situazioni; così, ad esempio, il genitore gli farà conoscere delle nuove persone dalla sicurezza delle sue braccia, dando il temo al bambino di adeguarsi a questi piccoli cambiamenti. Capire la causa principale ci permette di rispondere in modo efficace, questo gradualmente trasmette delle abilità di coping (saper affrontare) e riduce lo shaming (la delusione), non facendo sentire i bambini “cattivi”, “inadeguati” - sentimenti dannosi per la loro salute mentale.

Inoltre, è importante riconoscere che le sfide e lo stress sono una parte naturale e inevitabile della crescita di un bambino. La capacità di gestire lo stress affrontando le sfide influisce sull'autostima e la fiducia in se stessi. Fare errori, o fallire, è una parte fondamentale nell’apprendimento, in quanto porta a trovare delle soluzione alternative ai problemi e la costruzione di nuove conoscenze e competenze. L'esperienza nella gestione dello stress di tutti i giorni aiuta i bambini ad affrontare e ad imparare a gestire la frustrazione e la delusione.

La salute mentale del bambino è influenzata dal rapporto con i loro genitori, che offrono un adeguato contenimento; rispondendo agli sforzi comunicativi del loro bambino, prima con le espressioni facciali, suoni e gesti e poi con le parole; coinvolgendoli in attività di gioco, nell'esplorazione, seguendo i propri interessi; aiutandoli e sostenendoli nelle loro sfide; fornendo i limiti adeguati per aiutare i bambini ad imparare e a gestire le frustrazioni; e soprattutto a godere della gioia delle scoperte quotidiane dei propri piccoli, e investendo nella forza del legame che stanno costruendo assieme. Una buna sintonia influenza la fiducia e il senso di sicurezza del bambino facendoli sentire amati, semplici ingredienti che influenzano in senso positivo la salute mentale dei bambini.

Sarà importante sostenere i genitori nel loro importantissimo compito di prevenzione per una buona salute mentale dei propri piccoli. Attraverso servizi di supporto alla genitorialità, adeguati programmi per l’infanzia, con la collaborazione di psicologi e pediatri. Dopo tutto, i nostri bambini saranno i futuri cittadini, per i quali si stanno gettando le basi. 

Così, come società, ci ritroviamo davanti a una scelta, o sosteniamo le giovani famiglie a padroneggiare quella delicata e critica danza che è la crescita “bambino-genitore”, oppure il rischio è che dovremo intervenire direttamente sui successivi problemi psicologici con i costi che questi comportano alla società/famiglia. Non rimane che riconoscere e intervenire sulle fondamenta della salute mentale cogliendo l’opportunità di sostenere e promuovere un buon inizio!

Fonte: http://www.huffingtonpost.com/matthew-melmed/babies-mental-health-matters_b_7213290.html


dr. Alberto Migliore Psicologo, Psicoterapeuta, Torino, Chieri

1 Comment

L’ansia, un buon campanello d’allarme

19/5/2015

1 Comment

 
Picture
L'ansia può avere molte cause. L’ansia potrebbe essere un importante segnale che offre il nostro corpo per informarci che stiamo esagerando. Un altro motivo è che spesso le persone lottano con l’ansia perché hanno difficoltà a tollerare e gestire i loro sentimenti. Essi, in effetti, spingono i loro sentimenti in “fondo all'armadio" e quindi sentono la pressione di questi sentimenti che sbattono contro la porta (o, più precisamente, i loro corpi). Rispetto all'esperienza con l’ansia; alcuni la provano cronicamente, mentre altri ne sono infastiditi solo in situazioni molto difficili, come nei problemi familiari/relazionali, nelle difficoltà lavorative o in altre situazioni complicate. Il segnale è molto chiaro: aumento del battito cardiaco, sudorazione, agitazione, tremori fino ad arrivare nei casi più difficili a veri e propri attacchi di Panico.

L’ansia è quindi un avviso offerto in modo palese dal nostro corpo starà a noi decidere se approfondire o meno, anche a seconda della sua intensità e durata, questo importante canale d’informazione.

dr. Alberto Migliore Psicologo, Psicoterapeuta, Torino, Chieri



1 Comment

Salute e Isolamento sociale

4/5/2015

0 Comments

 
Picture
Ho trovato molto interessante l’articolo di Jessica Olien uscito sulla rivista Statunitense “Slate” sulle implicazioni della solitudine sulla salute mentale e fisica delle persone. L’autrice ne fa un racconto personale partendo da un suo trasferimento, dalla città di New York a Portland nell’Oregon. Racconta le difficoltà vissute, il graduale passaggio da uno stato di entusiasmo e ottimismo, della nuova condizione, ad uno stato di solitudine e di sofferenza psicologica che l’hanno portata a far rientro a New York. La Olien racconta il suo impegno nel cercare un contatto con le persone che però non è riuscita a trovare, ha intrapreso diverse attività fino al Golf e frequentato diversi luoghi (parchi, librerie, bar, etc.). La sensazione che descrive è quella del sentirsi soli in mezzo alla gente. Così come ritroviamo nella descrizione di Stephen Fry, uno dei più famosi attori del Regno Unito, che in un post nel suo blog racconta del suo tentato suicidio e di come la solitudine sia la parte peggiore del suo malessere. La domanda che ci poniamo è: come fa un attore così famoso a sentirsi solo? La risposta probabilmente la sappiamo, la maggior parte di noi sa che cosa vuol dire essere soli in una stanza piena di gente. Si potrebbe essere circondati da centinaia di fan adoranti, ma manca la persona con cui creare una relazione che si basa sulla fiducia e sull’interesse reciproco. In termini di interazioni umane, il numero di persone che conosciamo non è la migliore misura. Al fine di essere socialmente soddisfatti non abbiamo bisogno dei grandi numeri. Secondo Cacioppo J. T. e Patrick W. (2009)  la chiave è la qualità, non la quantità di persone. Abbiamo bisogno di quelle persone su cui siamo in grado di creare relazioni reciprocamente soddisfacenti.

Sono diverse le ricerche che evidenziano come lo stato di solitudine, se prolungato, possa essere una condizione anche grave per la salute dell’individuo. Ad esempio, studi condotti su una popolazione anziana hanno rilevato che coloro che vivono una condizione di isolamento sociale, una scarsa interazione sociale hanno due volte più probabilità di un decesso prematuro. Dalla letteratura scientifica emerge che il rischio di mortalità, per chi vive una condizione di isolamento, è paragonabile a quella della dipendenza dal tabacco. Inoltre, si è rilevato che la solitudine è un forte fattore di rischio per la salute addirittura più pericoloso dell'obesità.
L'isolamento sociale altera la funzione immunitaria, ci sono studi che la collegano al diabete di tipo II, malattie cardiache e disturbi mentali. Nonostante queste evidenze non c’è ancora un’adeguata sensibilizzazione così come è avvenuto per la dipendenza da tabacco e per l’obesità.
Negli ultimi anni, nonostante le nuove tecnologie, la condizione del vissuto della solitudine è raddoppiata: il 40% degli adulti, in due recenti indagini hanno dichiarato di essere soli, rispetto al 20% registrato nel 1980.
Sembrerebbe che tutte le nostre interazioni che avvengono grazie ad Internet non stiano aiutando così come si potrebbe pensare, ma al contrario incidano negativamente sullo stato di solitudine. Un recente studio di utenti di Facebook ha scoperto che la quantità di tempo speso per il social network è inversamente proporzionale al senso di felicità vissuto nella giornata.

Così come la nostra cultura è molto attenta alla prevenzione dell'obesità e alle campagne di prevenzione per la riduzione della dipendenza dal tabacco; non è ancora adeguatamente preparata per intervenire su un fattore di rischio così importante, per la salute dell’individuo, com’è la riduzione delle interazioni sociali e la tendenza all’isolamento che stiamo vivendo nella nostra società. Attualmente sia in Danimarca che in Gran Bretagna stanno dedicando tempo ed energie nella ricerca di soluzioni e progetti per le persone sole, in particolare partendo dagli anziani.

Bibliografia:
Cacioppo J. T. Patrick W. (2009). Solitudine. L'essere umano e il bisogno dell'altro. Milano: Il Saggiatore.

Sitografia:
http://www.slate.com/articles/health_and_science/medical_examiner/2013/08/
dangers_of_loneliness_social_isolation_is_deadlier_than_obesity.html?wpsrc=sh_all_dt_fb_bot


Dott. Alberto Migliore, psicologo a Torino, Chieri



0 Comments

Il motore narcisistico un'energia inquinante

13/4/2015

1 Comment

 
Picture
Nessuno è così vuoto come
coloro che sono pieni di se"

(Andrew Jackson)
 

Non è mia intenzione scrivere un articolo esaustivo su un argomento più volte trattato, il narcisismo come dimensione psicopatologica, mi concentrerò su uno dei processi di funzionamento che possiamo ritrovare nel soggetto che tende a questo tratto di personalità.

Sarà importate dare una definizione di questa condizione e per far questo userò i criteri dell’American Psychiatric Association attraverso il sistema diagnostico DSM-V che descrive il disturbo di personalità narcisistica come un quadro fatto di aspetti come la grandiosità (nella fantasia o nel comportamento), la necessità di ammirazione, una eccessiva facilità ad essere feriti da eventuali commenti o giudizi critici e una difficoltà ad empatizzare con i bisogni degli altri.

In particolare, il DSM-V propone nove criteri diagnostici dei quali almeno cinque devono essere presenti per formulare diagnosi di personalità narcisistica:

1) grandiosità, cioè sensazione di essere importanti, anche in modo immeritato;

2) fantasie di illimitato successo, potere, amore, bellezza, ecc.;

3) il sentirsi unici o speciali, e compresi solo da certe persone;

4) eccessive richieste di attenzione o ammirazione;

5) sentirsi in diritto di meritare privilegi più degli altri;

6) tendenza a sfruttare gli altri per i propri interessi;

7) mancanza di empatia verso i problemi delle altre persone;

8) persistente invidia;

9) Mostra comportamenti o atteggiamenti arroganti, presuntuosi.

Definito ad un livello diagnostico categoriale cos’è il disturbo narcisistico di personalità, utilizzerò la sensibilità clinica e un modello di lettura di tipo psicodinamico per narrare una delle modalità di funzionamento che si possono riscontare in coloro che hanno dei tratti narcisistici. Questa modalità di funzionamento l’ho concepita metaforicamente come “il motore narcisistico”.

“Il motore narcisistico” è una vera e propria spinta interna capace di portare ad importanti cambiamenti nella vita di chi ha avuto in “dono1” questa struttura. Come ogni dono è consegnato in una relazione; il soggetto che lo riceve si troverà un congegno molto complesso che nel caso trovi, un adeguato terreno di coltura (la vulnerabilità biologica del modello bio-psico-sociale dei disturbi mentali), prolifererà con una sazietà incolmabile.

Una ricerca di sazietà che ha lo scopo di non far provare il vuoto “della fame”. Una sensazione di pienezza onnipotente che fa dire: "io non ho bisogno di te, io sono autosufficiente”. Di chi sta bene solo quando guarda dall’alto, perché guardare dal basso implica lo stare troppo vicino all’assenza, alla mancanza, ad un limite intollerabile. Un limite spesso vissuto ma non digerito che spinge su verso l’esofago che, quando diventa acido, fa soffrire il soggetto e chi gli sta vicino.

Possiamo ancora descrivere questo funzionamento narcisistico come un viaggio senza fermate perché il motore gira molto velocemente e non c’è il tempo per fermarsi. L’obiettivo è l’arrivo; il viaggio in se non è importante. Una volta arrivati si fantastica una nuova partenza e così via. Una vera e propria abbuffata dove l’unico fine è il riempire, dove manca il piacere del gusto, delle diverse sensazioni che si provano nell’alimentazione: sapori, odori, consistenza.

Una complessità di sensazioni che arrivano al palato, a volte dolci, a volte dure, aspre o amare che caratterizzano l’esperienza culinaria o potremmo dire della vita. Ma i cavalli chiamano e non c’è tempo per fermarsi e gustare, bisogna arrivare al traguardo e assaporare una sospirata vittoria che metta una nuova distanza dallo start iniziale.

Uno start relazionale “il dono” fatto di microtraumi, di un’assenza di rispecchiamento e di sintonizzazione con i caregiver che si situano, rispetto al soggetto, o troppo lontani ad esempio quello che possiamo trovare nel genitore depresso o troppo vicini con un genitore eccessivamente intrusivo. In questi casi si può dire che lo specchio va in frantumi, condizione che può creare uno spazio senza l’altro e senza un verso Sé, inteso come base sicura (Bowlby, 1969), che una volta introiettato diventerà il visore necessario nel leggere la realtà.

Moccia (2011) descrive bene una delle possibili forme di questa trasmissione intersoggettiva con la citazione tratta dalla autobiografia di J.P. Sartre che allude ad una sua esperienza infantile:

“Dei buoni amici dissero a mia madre che io ero triste, che mi avevano visto pensieroso. Mia madre mi strinse a lei con un sospiro: "Tu sei così gioioso, sei sempre così canterino! Come è  possibile che tu ti lamenti di qualcosa?". Aveva ragione lei .....

Mia madre continuava a dirmi  che io ero il più felice dei ragazzini.
Come potevo io non crederle dato che questo era vero ?”

Uno spazio dove si è trasparenti, senza un posto nel mondo dei propri caregiver, nella impossibilità di differenziare se stesso dalle alienanti attribuzioni dei propri modelli. Su questo punto si ricollega bene una recente ricerca apparsa su PNAS (2015) dove si rileva chiaramente questa mancanza di sintonia affettiva (Stern, 1985) con dei caregiver che sopravvalutano le capacità dei propri figli, caricando le giovani menti in crescita di aspettative e ideali narcisistici che non lasciano spazio al proprio unico, individuale divenire; esponendo loro al rischio di un disturbo di personalità.

Questo start relazionale se trova il substrato giusto può innescare il motore narcisistico, una realtà fatta di performance, di una necessaria differenziazione, di conferme esterne ed interne che vanno a rinsaldare nel soggetto il posto assegnatogli con questo “dono”. Un posto dove sono oscurate sia le peculiarità e la creatività del soggetto sia il limite psichico tra Sé e aspetti carichi di intrusività e assenza dell’altro (Moccia, 2011). Uno spazio caratterizzato dalla contrapposizione dove si produce, per necessità, un’energia che come per il leggendario motore magnetico spinge e fa girare il motore. Un’energia prodotta dall’allontanamento di due poli dello stesso segno (figura 1). Il polo positivo, caratterizzato da aspetti di un Io non riconosciuto, che porta una mancanza e che si contrappone al polo positivo di aspetti di un Io ipertrofico, stimolato da uno squilibrio dell’accudimento genitoriale. Poli che allontanandosi lasciano uno spazio aperto riempito da un senso di vuoto in cerca di forma e da emozioni non pensate; senza un contenitore sufficiente ad accogliere ed elaborare elementi di intensa sensorialità ed emotività.

Un’organizzazione psichica disfunzionale, sia sul piano delle relazioni interpersonali, sia dell’autoregolazione affettiva che compensa la sofferenza generata dalla vulnerabilità del Sé con reazioni automatiche di grandiosa e scostante autosufficienza. Una condizione che può portare non solo il motore ad andare fuori giri, con la fatica psichica che questo comporta, ma anche il rischio che eventi di vita come la perdita del lavoro, lutti, momenti critici del ciclo di vita riducano quella distanza e di conseguenza quell’energia che mantiene il distacco difensivo tra i due poli. In questa condizione è opportuno un lavoro terapeutico che permetta a Narciso di rispecchiarsi in Narciso senza affogare in un lago di angoscia, contenendo ed integrando aspetti diversi del Sé, verso la fuoriuscita da un incantesimo che ha impedito l’innamorarsi dell’altro e l’utilizzo di un’energia meno leggendaria ma spesa verso la verità (Grotstein, 2010)2.


Note:

1 Uso in modo sarcastico il termine dono, perché se ad uno sguardo ingenuo questo funzionamento sembra facilitare l’adattamento all’ambientale, attraverso una spinta motivazionale al successo, dall’altro lato questo dono si trasforma in un dolo che porta all’inquinamento della vita del soggetto e delle sue relazioni.  

2 Secondo Grotstein nella rilettura di Bion l’essere umano è un individuo teso alla ricerca e/o all’evitamento della verità, e la psicopatologia (la sintomatologia) riflette una predisposizione verso la seconda posizione citata, mentre una condizione sana riflette la prima posizione.

 
Dott. Alberto Migliore psicologo a Torino  

 

Bibliografia:

  • American Psychiatric Association. (2013). Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM-V). Tr. It. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2014.
  • Bion, W.R. (1962), tr.it. Apprendere dall’esperienza. Roma: Armando Ed., 1972.
  • Bowlby, J. (1969), Attaccamento e perdita. Torino: Bollati Boringhieri Editore.
  • Borgogno, F. (1999). Psicoanalisi come percorso. Torino: Bollati Boringhieri Editore.
  • Balint, M., Balint, E. (1968), tr.it. Il difetto fondamentale. In Balint, M., Balint E., La regressione, Milano: Raffaello Cortina Editore, 1983.
  • Brummelman, E., Thomaes, S., Nelemans, S. A., Orobio de Castro, B., Overbeek, G., & Bushman, B. J. (2015). Origins of narcissism in children. Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America. Advance online publication.doi:10.1073/pnas.1420870112
  • Grotstein, J.S. (2010). Un raggio di intensa oscurità. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Ferro, A. (2007). Evitare le emozioni, vivere le emozioni. Milano: Raffaello Cortina Editore.
  • Moccia, G. (2011). L'influenza dell'altro: trasmissioni psichiche intersoggettive e strutture patologiche del sé. In: http://www.centropsicoanalisiromano.it/index.php?option=com_content&view=article&id=162:linfluenza-dellaltro-trasmissioni-psichiche-intersoggettive-e-strutture-patologiche-del-se&catid=107&Itemid=44
  • Stern, D. (1985). Il mondo interpersonale del bambino. Torino: Bollati Boringhieri Editore.

1 Comment

La Stampa, l'area salute/psicologia in collaborazione con Medicitalia

28/12/2013

0 Comments

 
Immagine
0 Comments

La psicoterapia breve

14/6/2013

0 Comments

 
Immagine
La durata di una  psicoterapia dipende da una serie di variabili, non dovrebbe essere scelta né arbitrariamente né la scelta essere condizionata dalle sole competenze tecniche del terapeuta, come il terapeuta “ingenuo” che ha una preparazione specifica per  una tecnica breve e la utilizza con tutti i suoi pazienti, indipendentemente dalla loro caratteristiche. Oggi, per i professionisti della mente, così come per le altre discipline sanitarie, il ventaglio delle tecniche a disposizione è diventato molto più amplio di un tempo. Il terapeuta può, dopo i primi colloqui iniziali, decidere a seconda del paziente e della sua sintomatologia quale  percorso gli sarà più efficace; consigliando un approccio diverso se si ritiene più utile per quel determinato soggetto. La variabile della durata e di conseguenza della tecnica va gestita a seconda di colui che si siede sulla poltrona del terapeuta, in breve dipende molto dal paziente che si ha davanti.

Nella durata di una psicoterapia distinguiamo fin da subito due livelli di variabili una quantitativa (il tempo) dipendente da una serie di variabili di natura qualitativa, fondamentali per la scelta della terapia da utilizzare. Se parliamo di tempi, generalizzando molto, possiamo dire che un intervento breve va dai 2/3 mesi fino all’anno, oltre non si dovrebbe più parlare di psicoterapia breve. La terapia Breve ha una tradizione paragonabile a quella  della psicoterapia. Era presente già a partire dagli anni successivi al
1890. Agli albori non godeva di una buona fama, e veniva considerata uno strumento terapeutico di second’ordine, da usare solo quando non si aveva a disposizione niente di meglio. Con il XX secolo e lo sviluppo della psicoterapia, nacquero diverse scuole e tendenze, ognuna delle quali elaborò la propria forma: oggi troviamo scritti sulla psicoterapia breve nei diversi orientamenti teorici e non solo nei trattamenti individuali ma anche di coppia, gruppo e familiari. Essendo molto vasto il mondo delle psicoterapie brevi qui mi soffermerò solo sull’orientamento psicoanalitico. 
 
Come abbiamo scritto  sopra gli aspetti qualitativi sono gli elementi che possono aiutare il
terapeuta, con una specifica formazione, nel “pensare” alla possibilità di un approccio breve per un determinato paziente. Alcuni autori (Alexander, 1946, Sifneos, 1972; Malan, 1976; Davanloo, 1980; et al.) hanno rilevato dei criteri specifici da tenere in considerazione nella scelta di un percorso di psicoterapia breve. Vediamo alcune di queste variabili. 
 
La “salute  mentale” può diventare un criterio di selezione importante. Questa categoria  raggruppa diverse dimensioni psicologiche, che riguardano la gamma e la  ricchezza degli affetti, la duttilità e l’adattabilità dei tratti di carattere, le difese primarie usate e la loro flessibilità, la proporzione fra le difese di livello superiore, come l’altruismo e la repressione, e quelle di livello più  basso, come la proiezione e il diniego. Un soggetto con una salute mentale molto compromessa può avere meno probabilità di ottenere dei risultati soddisfacenti con un approccio breve. Inoltre, una struttura molto compromessa può avere bisogno di un approccio più “delicato” nel costruire una buona alleanza  terapeutica e tempi più lunghi per il raggiungimento di un livello di lavoro  proficuo.
Secondo Alexander, la lunghezza della terapia dipende dalla capacità di riflessione psicologica e dalla “forza dell’Io” (equilibrio, maturità, integrità personale, razionalità e affidabilità, etc.): più l’Io è  forte, più il terapeuta può lavorare sul materiale in profondità, ottenendo  ugualmente un effetto terapeutico nonostante i tempi limitati. Malan adotta alcuni criteri di selezione derivati dalle sue ricerche, per esempio, che ci sia  la possibilità di individuare un “focus”, ossia un problema ben delineato. Un “focus” è costituito da un sintomo circoscritto, o da un’area delimitata di difficoltà, la cui risoluzione soddisfi i bisogni attuali del  paziente, nel senso che, qualora i problemi riguardanti il focus vengano
risolti, il paziente sentirà che la terapia ha raggiunto il suo scopo. Se non può essere individuato alcun focus, se i disturbi del paziente sono vaghi, diffusi, o compromettono molti aspetti della vita e del funzionamento psichico, la psicoterapia breve è controindicata (W.V. Flegenheimer, 1986).  Inoltre, è importante che il paziente sia in grado di rispondere in modo significativo alle “interpretazioni di prova”, viene osservato l’atteggiamento che il soggetto ha verso se stesso: l’attitudine a parlare con sincerità di se stesso e a considerare i propri problemi in termini psicologici; Malan lo rileva come un segno prognostico favorevole. È altresì importante il rapporto che si crea tra paziente e terapeuta e i primi segni dell’alleanza di lavoro oltre alla motivazione a lavorare del paziente. 
 
In sintesi si  possono utilizzare i criteri individuati da Sifneos che nonostante siano assai  rigidi riprendono molte delle variabili  più utilizzate nella selezione dei pazienti per la terapia breve.

 - Capacità del paziente di enunciare un disturbo prioritario circoscritto (concetto similare al “focus” se il soggetto ritiene che le questioni da risolvere siano molte e apparentemente slegate una dall’altra, il tempo a disposizione in questa tecnica non sarà sufficiente per prenderle in considerazione tutte e di conseguenza la psicoterapia breve non dovrebbe essere consigliata).
 - Presenza di un  rapporto di reciprocità o significativo con un’altra persona (criterio utile nel provare l’esistenza di sentimenti di intimità, fiducia, reale coinvolgimento emotivo. Elementi utili per la costruzione di una buona alleanza terapeutica).
 -Capacità di interagire con il terapeuta, esprimendo in maniera adeguata i propri sentimenti e mostrando un certo grado di flessibilità.
- Intelligenza e  capacità di comprensione e riflessione psicologica. 
- Motivazione al cambiamento e disponibilità a partecipare attivamente alla terapia. 
 
Secondo Malann, se  si usano tecniche valide e criteri di selezione adatte ad esse, un’ampia gamma  di disturbi possono essere trattati con tali modalità di terapia: i risultati di una terapia breve possono consistere non solo nella remissione o nel miglioramento dei sintomi, ma anche in alcuni cambiamenti nella struttura del carattere e nei principali meccanismi di difesa. Gli scopi della psicoterapia breve possono quindi essere simili a quelli della psicoterapia a lungo termine, anche se, ovviamente, non in tutti i casi.

Bibliografia
Alexander, F., French, T.M., (1946), “Psychoanalytic  Therapy”, Ronald Press, New York.
Davanloo H., (1980), “Short-Term  Dynamic Psychoterapy”, Jason Aronson, New York.
Flegenheimer, W.V., (1986), “Psicoterapia breve, teorie e tecniche di trattamento”, Raffaello Cortina Editore,  Milano.
Malan, D.H., (1978), “Uno studio di psicoterapia breve”,  Astrolabio, Roma.
Sifneos, P.E., (1982), “Psicoterapia breve e crisi emotiva”, Martinelli, Firenze.


Dott. Alberto Migliore psicologo a Torino  
 

0 Comments

La mente e i suoi strumenti, introduzione ai meccanismi di difesa

24/5/2013

0 Comments

 
Immagine
  • Sono numerosi i contributi provenienti dalla psicologia da quella dinamica a quella  cognitiva che ci raccontano, attraverso il lavoro di ricerca e gli studi  clinici, diversi meccanismi mentali che intervengono nella nostra quotidianità e  non solo nella patologia psichica, influenzando la nostra lettura della realtà e  di conseguenza il nostro comportamento e l’adattamento  all’ambiente. Sono strumenti mentali che nella maggior parte  dei casi sono adattivi e ci permettono di affrontare con successo le sfide della  nostra quotidianità anche se in alcune situazioni posso diventare dei veri e  propri bug che causano errori di valutazione e a volte partecipano al  mantenimento di uno stato di sofferenza psicologica.

    Riporteremo, con degli esempi, solo alcuni tra i  più importanti strumenti della nostra mente coinvolti nelle nostre scelte,  decisioni, relazioni, più in generale influenti nella vita sociale, familiare e  lavorativa: i meccanismi di difesa. Strumenti che già dal loro  nome ci delineano la loro funzione ossia difenderci da aspetti “traumatici,  conflittuali” interni (fantasie, pulsioni, pensieri, emozioni, etc) e/o esterni  (persone, oggetti, animali, situazioni, etc) e partecipare alla costruzione del  Sé dell’individuo e al suo equilibrio psichico.

    Rimozione
    Iniziamo con uno dei più famosi ed universali  meccanismi di difesa: la rimozione, non è solamente il  meccanismo di difesa basilare ma è anche quel concetto che pone le basi per la  teoria dell'inconscio freudiano. Possiamo definire la rimozione come l’allontanamento dalla  coscienza dei desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e  insostenibili dall'Io, così pericolosi per il nostro stato mentale che possono  provocare una perturbazione non tollerabile.
     La nostra mente lavora per noi, ci protegge da  elementi che ritiene troppo dolorosi per il nostro stato mentale. Gli esempi da  fare sono diversi, uno che può anche non essere rilevante sul piano clinico,  considerato da Freud (1901) in Psicopatologia della vita  quotidiana, è la momentanea amnesia. Esempio: un giornalista dimentica il nome  di un politico che sta citando in un contesto in cui è evidente che il  giornalista prova qualche sentimento negativo inconscio verso quella persona.
    Oppure gli atti mancati come il dimenticare di effettuare un colloquio di lavoro perché riattiva lo schema “non mi sento all’altezza, non farò mai nulla di buono” aspettativa appresa probabilmente nelle relazioni famigliari o più in generale sociali che la nostra mente tende a controllare con i strumenti che ha a disposizione.

    Negazione
    Un altro meccanismo interessante, collegato con  la rimozione, è la negazione, un modo di prendere coscienza del  rimosso, in verità è già una revoca della rimozione, non certo però
    un'accettazione del rimosso. Negare alcunché nel giudizio è come dire in  sostanza: "questa è una cosa che preferirei rimuovere" e di conseguenza la nego. La negazione è la variante meno grave del diniego in cui vi è una completa  scotomizzazione del dato di fatto conflittuale, senza alcuna consapevolezza di  ciò.
    Nella negazione di livello nevrotico quello che viene negato è solo l'affetto, mentre il rapporto con la realtà è di norma mantenuto. Un esempio è il “non vedere” alcuni atteggiamenti sadici di un genitore “base sicura” perché questo vorrebbe dire ridefinire gli aspetti affettivo/cognitivo dei propri legami e di conseguenza il proprio equilibrio  psichico. Diversamente il diniego è un meccanismo di difesa considerato molto primitivo e generalmente associato a gravi disturbi della personalità, compresa la psicosi, viene utilizzato quando il pericolo potenziale per il mantenimento della struttura psichica è estremo. l’esperienza è governata dalla convinzione prelogica che “se non lo riconosco non succede”.
    Con il diniego l'individuo esclude dalla coscienza, in modo automatico e involontario, certi aspetti della realtà che altrimenti sarebbero causa di troppa angoscia o dispiacere. Un esempio di diniego è quello in cui una persona nega la gravità di una malattia che può riguardare se stesso oppure il coniuge, il figlio o il genitore. Ci sono dei casi in cui ad essere negata è la morte di una persona cara, come nel caso della signora che molti mesi dopo la morte del marito conservava le stesse abitudini, ad esempio, apparecchiare la tavola per due.

    Idealizzazione
    Passiamo a un altro meccanismo di difesa che è l’idealizzazione, processo mentale mediante il quale la persona costruisce immagini del Sé, di oggetti ed eventi esterni irrealistiche, totalmente positive e onnipotenti. Questo strumento della nostra mente è  piuttosto comune nell’innamoramento, quando vediamo il partner come una persona  senza difetti, perfetta, questo meccanismo potrebbe avere anche delle basi evolutive con l’obiettivo di facilitare la costruzione della relazione di copia e di conseguenza  incrementare le probabilità della perpetuazione della specie umana.
    L’idealizzazione dei genitori è però fondamentale nell’infanzia nella costruzione del Sé del giovane uomo. Nell’ottica di Kohut l’immagine interiorizzata di perfezione del genitore andrà  a modellare la struttura dell’Ideale dell’Io che, con i suoi valori, rappresenta una guida interiore, che spinge l’Io alla realizzazione (…) influenzandone la salute psicologica.

     Identificazione
    Anche il meccanismo di difesa dell’identificazione è importante per lo sviluppo del bambino,  per identificazione si intende un auto-attribuzione ed "assunzione" di  caratteristiche e qualità proprie dell'oggetto stimato e amato. È fondamentale nello sviluppo del bambino che "copierà" caratteristiche dei genitori e di altre persone significative nel corso della sua educazione. In sintesi l’identificazione è un processo  psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un'altra persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di quest'ultima. Un'altra forma d’identificazione, che per prima Anna Freud tratta nel libro l'Io e i meccanismi di difesa, descrive un particolare tipo di identificazione, "l'identificazione con l'aggressore", osservando il fatto che tanto i bambini quanto gli adulti si identificano spesso con le persone che essi temono o odiano, soprattutto se simili persone sono in posizione di  potere. Il bambino fa fronte a una persona minacciosa identificandosi con essa e padroneggiando quindi l'angoscia. L’identificazione con l'aggressore: indica l'assumere il ruolo dell'aggressore e dei suoi attributi funzionali, o l'imitarne la modalità aggressiva e comportamentale. Un suo sottotipo particolare è la cosiddetta "sindrome di Stoccolma".
    La “Sindrome di Stoccolma” è una condizione clinica il cui nome origina da un episodio dell’agosto del 1973 quando quattro impiegati di una banca di Stoccolma dopo essere stati presi in ostaggio da due rapinatori per quasi una settimana; dopo la loro liberazione  testimoniarono a favore dei rapinatori. Sono diversi i casi di eventi criminali come abusi e violenze caratterizzati dall’identificazione con l’aggressore. Questo meccanismo per il quale la vittima  solidarizza con il suo carnefice, fino in alcuni casi all’innamoramento, può
    avere una valenza positiva di protezione del soggetto che subisce una violenza.
    In alcuni casi quando la vittima affronta uno stress molto intenso, che supera  il suo livello di tolleranza, dove c’è il rischio di perdere la propria integrità fisica e psicologica si potrebbe innescare un processo d’identificazione ed empatico di alcune caratteristiche cognitive e comportamentali dell’aggressore. Un processo che a livello interno psicologico
    può aiutare ad affrontare l’evento fortemente traumatico e intollerabile, ad un livello esterno, attraverso un comportamento collaborativo e sottomesso, ridurre l’aggressività e la fuga della vittima incrementando la sua aspettativa di vita.

    Formazione reattiva
    Può capitare che quando si presentano impulsi angosciosi e dolorosi, desideri inaccettabili per la nostra coscienza, si attivi il meccanismo di difesa denominato della formazione reattiva  tramite il quale l’individuo evita e si difende accentuando e manifestando la  tendenza opposta sostituendo un desiderio inaccettabile con un suo  opposto come l’esibizionismo coperto da un atteggiamento di pudore, oppure l’ambizione coperta dalla modestia, oppure impulsi d’odio coperti  dall’amore. Ad esempio un bambino che copre la sua gelosia verso il fratellino appena nato attraverso attenzioni esagerate rivolte al neonato (i pizzicotti affettuosi, la vicinanza fisica eccessiva e il controllo) che spesso poco si distinguono da un vero e proprio tormento, ma permettono al bambino di gestire meglio i sentimenti verso il fratellino. A sostegno dei meccanismi reattivi possono essere messi in
    atto dei cerimoniali ossessivi che costituiscono una ulteriore barriera alla manifestazione degli impulsi aggressivi più profondi.

     Proiezione
    Ci sono situazioni dove tendiamo a trasferire all’esterno aspetti che riteniamo inaccettabili per la nostra mente, questi aspetti del nostro Sé vengono attribuiti su un altro oggetto o sull’intero  ambiente. Questo processo mentale viene denominato proiezione è  spesso alla base della paranoia, semplificando molto: le nostre insicurezze,  ostilità, aggressività vengono attribuite, proiettate all'esterno, su altre persone, o sull'intero ambiente, che verrà così  percepito come costantemente ostile e pericoloso per la sopravvivenza dell'individuo.  Un esempio più banale possiamo trovarlo in  alcuni rapporti di coppia, quando il partner esprime poca fiducia e una paura immotivata di tradimento. Nell’ottica della proiezione questa paura può originare da un’insicurezza contornata da impulsi attrattivi, sessuali verso l’esterno di natura extraconiugale. Sentimenti che possono essere  gestiti, dalla nostra mente, con il meccanismo della proiezione (trasferendo sull’altro  le nostre pulsioni). In particolare questo può capitare in quei soggetti i cui impulsi creano conflitto, senso di colpa,  rispetto ad aspetti di natura valoriale come la fedeltà, l’onestà, la correttezza o più in generale una discrepanza rispetto all’immagine che si ha di Sé
    La proiezione insieme allo spostamento sono  meccanismi di difesa collegati alle fobie. Nel famoso caso di Freud del piccolo Hans con la fobia per i cavalli, i contenuti psichici di Hans erano, sì, d’amore nei confronti del padre, ma anche di odio. Il bambino non poteva tollerare la  presa di coscienza di detti vissuti aggressivi verso la figura paterna,  pertanto, li doveva proiettata all’esterno. Un angoscia che una volta proiettata veniva spostata sulla figura del cavallo, che diventa così l’oggetto della fobia  del bambino.

    Spostamento
    Lo spostamento è un processo che ha una funzione di per se positiva non far sgretolare l’impalcatura psichica del soggetto davanti a sentimenti inaccettabili, questi verrebbero spostati su  un oggetto "sostitutivo" che assume il ruolo di oggetto manifesto, o apparente,
    ed è in stretto rapporto simbolico con l'oggetto reale o la rappresentazione mentale che causa l'attivazione di questa difesa. Ecco elencate alcune delle fobie più comuni divise in categorie:

    • Fobia dello spazio
      Si manifesta con la paura di uscire,
      angoscia delle strade, con la paura degli spazi aperti (agorafobia), o degli
      spazi chiusi (claustrofobia).Varietà di questa categoria sono la cosiddetta
      vertigine fobica (paura delle montagne, degli ascensori, dei piani alti); la
      paura dell'oscurità (vissuta come spazio minacciante); dei mezzi di trasporto
      (es. degli aerei o dei treni); paura della folla (ma anche di parlare o
      comparire in pubblico).

    • Fobie come residui della prima infanzia
      Paura dei grossi
      animali conosciuti dal bambino per esperienza diretta o attraverso racconti
      (cani, cavalli, leoni, lupi ecc) immaginati in atteggiamenti minacciosi pronti a
      divorare e inseguire.

    • Fobie come residui della seconda infanzia
      Paura degli
      animali piccoli (topi, insetti ecc.), la cui minaccia per l'integrità del corpo
      genera repulsione.

    Inoltre, il meccanismo dello spostamento lo  possiamo anche trovare nell’atto creativo, dove alcuni aspetti come quelli di natura aggressiva  o sessuale vengono trasformati in attività artistiche come la pittura e la scultura, più accettabili dalla nostra “realtà”.
    Concluderei con due strumenti che evolutivamente sono ritenuti più primitivi ma altrettanto utili nello sviluppo psicologico dell’individuo. Questi sono la scissione e l’identificazione proiettiva.

     Scissione
    La scissione  possiamo descriverla come la separazione degli aspetti in conflitto o  degli stressor,  un meccanismo che permette di tenere divisi  gli  stati affettivi opposti  (parti buone e cattive), spesso vissuti come non  integrabili ("tutto o nulla"). L’individuo affronta i conflitti emotivi considerando se stesso  o gli altri come completamente buoni o completamente cattivi non riuscendo a  integrare le caratteristiche positive o negative di sé e degli altri in immagini  unitarie. “mio padre è una persona magnifica” , “mia madre è una  persona sporca”, spesso lo stesso individuo sarà alternativamente idealizzato e svalutato.  Questi soggetti affrontano la complessità affettiva vissuta come distruttiva annientante dividendo le immagini cariche emotivamente per poterle meglio sopportare.   Ad esempio, una donna con un disturbo di personalità borderline può percepire il  terapeuta totalmente buono, mentre considera stupidi, ostili e indifferenti gli  impiegati amministrativi che lavorano nello stesso contesto.
    Oppure il terapeuta stesso può diventare improvvisamente il bersaglio di una rabbia incontrollata, nel momento in cui il paziente lo vede come una personificazione del male, mentre soltanto la settimana prima lo considerava assolutamente buono. Questo fenomeno può capitare  anche con le persone affettivamente significative.

    La scissione originerebbe evolutivamente per affrontare la complessità emotiva interna del bambino nel rapporto con gli oggetti  esterni e interni fase che la  Melanie Klein ha identificato come schizoparanoide. Un meccanismo che affievolisce la sua importanza nel
    momento in cui il bambino assimila e fa convivere le parti scisse in un unico ambiente capace di mantenere e sostenere la pressione emotiva che nasce dalla mescolanza di aspetti contraddittori del sé e dei rapporti con gli oggetti esterni fase che viene identificata dalla Klein come depressiva.
    La scissione è un meccanismo di difesa con una funzione adattiva per il bambino e che, nell'adolescenza e nell'età adulta, opera una separazione di qualità dell'oggetto o dell'Io, pur non compromettendo l'esame di realtà. Trattandosi di un meccanismo di difesa arcaico, che nasce in senso evolutivo, la scissione può presentare (in alcuni casi e con un impiego massiccio e rigido) aspetti fortemente maladattivi come avviene nelle psicosi.

    Identificazione  proiettiva L’Identificazione  proiettiva è un processo di proiezione  spesso di qualità percepite come "cattive"  (proiezioni di sensi di colpa, invidia, angosce varie, idee depressive, ecc) dell'Io sull'oggetto relazionale, e successiva identificazione al fine di esercitare un controllo (spesso aggressivo) su di esso. Proiettando sull'altro le proprie qualità inaccettabili l'Io può sviluppare l'illusione di poterle dominare dall'esterno. È un meccanismo di difesa complesso, che opera in seguito  ad una scissione.
     Partiamo da un caso clinico tratto da Ogden  [cit., pp. 18-20; originariamente pubblicato sull'Int. J. Psychoanal., 1979, 60: 357-373] letto nel articolo sull’identificazione proiettiva di Paolo  Migone. Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all'analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall'analisi "ci guadagnava qualcosa",  diceva "forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile", e così via. Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle  sempre più in ritardo, fino al punto che l'analista incominciò a chiedersi se il  paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le  fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l'analista  pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell'inizio di una seduta, l'analista pensò di accorciare l'ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Tutto questo inizialmente
    accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l'analista.
    Gradualmente, l'analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente "il valore di quello che lui pagava".  Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l'analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo "inutile" lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne  vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l'essere eccessivamente generoso con il suo tempo. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l'analista fu capace di guardare  ora in modo nuovo al materiale clinico. Il padre del Sig. K aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente. Il sentimento implicitamente trasmesso era che l'avidità del paziente per il tempo, l'energia
    e l'affetto della madre aveva provocato l'abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all'analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l'abbandono da parte del padre (transferale) e l'attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell'analista. Invece, il paziente insisteva nel considerare l'analista e l'analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L'interazione aveva sottilmente generato nell'analista un intenso  sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all'inizio anch'egli cercò di negarlo e sconfessarlo. Per l'analista, il primo passo nell'integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell'aspetto di se stesso che era interessato alla  comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di  negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli. Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell'analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell'analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l'analista diventava consapevole di
    questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di convivere con esso, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro. Dopo un po' di tempo il  paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l'analista sembrava felice di ricevere "quel bel grasso assegno", e che ciò "non si addiceva molto ad uno psichiatra". L'analista sorrise un po', e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione,  l'accettazione da parte dell'analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e  ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l'internalizzazione da parte del paziente. L'analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia  consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la  reinternalizzazione attraverso l'interazione terapeutica.
    Si può vedere nel caso riportato le fasi della identificazione proiettiva, la proiezione sull’oggetto relazionale (il terapeuta), in questo caso viene proiettato il sentimento di avidità, proiettato perché ha una valenza conflittuale per il paziente. Questa condizione blocca la terapia, perché il paziente controlla e manipola tale sentimento una volta  plastificato sull’altro, rendendo difficile il lavoro terapeutico. La capacità dell’analista di elaborare tale sentimento di renderlo naturale e innocuo a intaccato uno dei possibili modelli operativi interni che semplificando afferma: “se richiedo troppo, se sono avido, verrò colpevolizzato e abbandonato”.
    Questi sono solo alcuni degli strumenti che la nostra mente può utilizzare per gestire gli stimoli che arrivano dal nostro mondo interno o dalla realtà esterna, una complessità di sollecitazioni che la nostra mente deve saper trattenere, allontanare, incentivare, utilizzare,
    investire, elaborare, distinguere e così a continuare.
    Gabbard (2005) definisce i meccanismi di difesa  come:

     “Meccanismi diretti a  preservare un senso di autostima di fronte a vergogna e vulnerabilità, a garantire un senso di sicurezza quando l’individuo si sente gravemente minacciato da abbandono o alti rischi e a proteggerlo nei confronti dei pericoli esterni”.

     Attività che la nostra mente svolge in modo procedurale, autonomo, caratteristici della struttura dell’Io, inconsci, lontani dalla nostra attenzione. Un’attenzione che rimane deresponsabilizzata dal complesso lavoro che la nostra mente svolge. Un lavoro di organizzazione di semplificazione della realtà che permette all’uomo di mantenere un equilibrio psichico sufficientemente adattivo. Se però i fattori di rischio interni ed esterni aumentano (vulnerabilità biologiche, eventi negativi di tipo psicologico e/o sociale) può capitare che i meccanismi di difesa si irrigidiscano, prevalgano quelli primitivi e non siano più gli strumenti utili e sufficienti al mantenimento di un equilibrio psicologico adeguato alla nostra società, cultura aprendo così alla psicopatologia.
     
  • Bibliografia
  • Gabbard Glen O., (2005), “Introduzione alla psicoterapia psicodinamica”.  Cortina Raffaello, Milano.

    Bowlby J., (1989), “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento”. Cortina Raffaello, Milano.

  • Freud A., (1978), “L’Io e i meccanismi di difesa, tr. It. In Opere di  Anna Freud”, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Freud S., ( 1971), “Psicopatologia della vita quotidiana”.  Boringhieri, Torino.

  •  Klein M., (1978), “Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, tr. It. In scritti 1921-1958”. Boringhieri,  Torino.

  • Klein M., (1978), “Note su alcuni meccanismi schizoidi, tr. It. In  Scritti 1921-1958”. Boringhieri, Torino.
  • Kohut H., (1976), “Narcisismo e analisi del sé”. Boringhieri,  Torino.
  •  
  • Migone .,  http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt49ip88.htm

  •  

  • 0 Comments

    L’utilità della psicoterapia. I risultati che si possono attendere

    19/5/2013

    0 Comments

     
    Immagine
    I risultati che una persona vuole raggiungere con un percorso psicoterapeutico  possono riguardare più aspetti della vita di un individuo, nella maggior parte  dei casi hanno un filo comune che li collega fra di loro che possiamo descrivere  bene con, il termine generico, di un senso completo di benessere. Sono diverse  le variabili che influenzano il raggiungimento dell’obiettivo o forse sarebbe  meglio dire degli obiettivi. Spesso una psicoterapia porta a più risultati. In  questo scritto descriverò alcuni degli obiettivi che si possono ottenere con un  percorso terapeutico con in mente una precisa tecnica che è quella ad  orientamento psicoanalitico.
     Partiamo da uno  degli elementi più evidenti che possono condurre una persona a richiedere una  consulenza con un professionista della salute mentale, come è lo psicoterapeuta,  ossia il sintomo. Un’espressione evidente, concreta di sofferenza psicologica  che viene esposta attraverso una serie di comportamenti come possono essere i  disturbi dell’alimentazione, le ossessioni, le fobie, etc.. Una condizione spesso invasiva ed insopportabile che il  paziente chiede di superare. L’attenuazione dei sintomi è forse uno degli scopi  più salenti di una terapia, il paziente spesso tende a migliorare con il lavoro  terapeutico. Il sintomo porta con sé una complessità difficilmente riducibile ad  un semplicistico processo di causa ed effetto e proprio come un quadro astratto  porta con sé significati, tratti specifici, emozioni e in alcuni casi esprime  anche lo spirito del tempo e della cultura. Per l’influenza del tempo e della  cultura userò come esempio l’isteria, nella versione tipica ottocentesca, una  serie di sintomi caratterizzati da paralisi degli arti, cecità momentanea,  perdita di coscienza e della capacità di parlare. Seguita poi da una fase  emozionale molto intensa con azioni imprevedibili, gesti, smorfie che  rappresentavano sentimenti molto profondi. Una ritratto di questa sintomatologia  ce la presenta bene il regista David Cronenberg,  nel suo film A Dangerous Method nell’interpretazione che l’attrice Keira Knightley  dà della paziente isterica Sabina Spielrein. Una sintomatologia trasformata nel tempo, così come la sua diagnosi, fino a scomparire nelle più recenti classificazioni, dal DSM IIIR e  dall’ICD10, avendo subito un vero e proprio "smembramento" in diverse altre  configurazioni nosografiche, perdendo così quella identità che l’ha  contraddistinta per oltre un secolo nel rispetto di una riconoscibilità e  specificità (SAJA, SONNINO, STRUMIA, 1998). Oggi è molto raro vedere i sintomi  dell’isteria così come li vedevano i professionisti della salute mentale nel  diciannovesimo secolo.

    La  sintomatologia psicologica spesso ha radici aggrovigliate che vengono alimentate  da più canali: le fasi evolutive, le esperienze di vita, i tratti caratteriali,  ne dà una semplice e chiara descrizione di questa non linearità la Mc Williams  (2002) con alcuni esempi clinici. La giovane ragazza con un “semplice” disturbo  alimentare è in realtà invischiata nelle relazioni di una famiglia  perfezionista, e che quindi il suo disturbo alimentare è un’espressione del
    fatto che la paziente è “in trappola”; che l’uomo che ha chiesto una terapia di  coppia finalizzata a “migliorare la sua comunicazione” con la moglie, in realtà  ha un’amante segreta che sta crescendo un figlio che lui non ha riconosciuto. La  sintomatologia esprime e porta con sé una complessità che non può essere  sottovalutata, questa complessità va compresa e gestita insieme al sintomo  nell’ottica di un raggiungimento di una più generale stato di benessere. Ad  esempio la donna con disturbi alimentari non vuole solo smettere di vomitare,  sintomo prevalente, ma vuole anche arrivare al punto in cui il cibo per lei sia  semplicemente cibo, e non un deposito di tentazioni disperate e di un rimando di  un sé disgustoso. Così come una persona che ha subito un abuso sessuale durante
    l’infanzia vuole cambiare internamente, soggettivamente, e passare dal sentirsi  la vittima di un abuso cui è successo di essere anche una persona, al sentirsi  una persona cui è successo di subire un abuso (Frawley O’Dea, 1996). Il processo  psicoterapeutico porta non solo all’attenuazione dei sintomi come abbiamo  descritto sopra ma a una serie di risultati correlati che vengono descritti come  lo sviluppo di insight, agency, identità, autostima, capacità di padroneggiare  gli affetti, forza dell’io e coesione del Sé, una capacità di amare, lavorare e  giocare più in generale un senso completo di benessere (Mc Williams, 2002).  Tratteggerò brevemente e separatamente questi obiettivi per darne meglio una  visibilità, sapendo bene che fanno parte di un complesso processo legato al  benessere individuale, che non è facilmente riducibile nelle sue singole  parti.

    Partiamo  dall’insight,  un  termine che potremo esprimere come il vedere dentro di sé (in-sight), la  conoscenza, un ampliamento del modo di osservare la propria narrazione, un dare  voce al “conosciuto non pensato” (Bollas, 1987). Ad esempio la storia di una  donna che si descrive forte e indipendente ma che soffre molto per la sua  difficoltà nel mantenere una relazione stabile e duratura con un uomo.  Complessità relazionale che nasce da alcuni suoi comportamenti come scatti di  rabbia, la svalutazione del partner, la mancanza di interesse profondo per  l’altro che lei riproduce in modo spontaneo nelle sue storie d’amore senza  rendersene conto, con procedure automatiche così come quando guida una macchina  o pedala in bicicletta. Per questa donna il pensiero procedurale diventa  pensato, conosciuto, quando si passa attraverso l’emozioni, al sentire, al  condividere, il forte senso di abbandono, di umiliazione, di inferiorità che  prova nelle relazioni. Sentimenti nascosti da un comportamento difensivo di  rabbia e svalutazione del partner che protegge dalla sofferenza ma riduce la  propria agency, la propria crescita o libertà d’azione, altro obiettivo di una  psicoterapia, in questo caso impedendo la realizzazione  del  desiderio di una relazione stabile.

    Abbiamo  accennato all’agency come alla  facoltà personale di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà, di  agire attivamente per il proprio benessere. Allora sarà frequente sentirsi dire  dalle persone in terapia frasi come: “non mi lascio più caricare di  responsabilità fino a scoppiare”, “accetto meglio il fatto che possa avere dei  limiti ”, “ho imparato a dire quello che sento e a condividerlo con gli altri”,  “ero troppo concentrato su di me e sulla mia ferita, non davo la giusta  attenzione alle persone importanti della mia vita”. Frasi che danno l’idea che  le persone possano tornare, anche dopo una forte tempesta, capitani  sufficientemente capaci a governare il timone della propria  nave.

    L’identità, il riconoscerne le  sfaccettature, l’essere riconosciuto dall’altro con le proprie  caratteristiche che ci rendono unici e differenziati. Integrare parti di noi che  non vogliamo riconoscere perché attivano aree di sofferenza emotiva che a volte  non si è in grado ancora di comprendere e affrontare. Le difficoltà di accettare  il proprio Sé quando è diverso dalle aspettative familiari o gruppali. Capire  chi si è per poter affrontare con maggiori strumenti le sfide che troviamo nel  nostro percorso. Identità spesso precarie, fragili, aggrappate all’esteriorità  che rispecchiano un’immagine tenue del proprio Sé. Un’immagine scolorita di un’identità complessa ma non narrata, semplificata; che si regge attraverso un  ruolo lavorativo o famigliare che qualora venisse a mancare lascia un vuoto  soverchiante e una sensazione di pezzi da risistemare. Un percorso terapeutico  non può che avere a che fare con una conoscenza e un rafforzamento del proprio  Sé. 

    Un altro  ingrediente che viene influenzato nell’impasto del lavoro terapeutico è l’autostima che trova nel lavoro e confronto psicologico, attraverso anche il riconoscimento delle proprie  imperfezioni e dei propri difetti, una maggior  stabilità. L’autostima  acquisisce una nuova solidità quando si affrontano i sentimenti di inferiorità,  di bassa stima del Sé, a volte ben nascosti da difese narcisistiche, difese che  creano un’impalcatura che protegge il Sé fragile a discapito della spontaneità  relazionale. 

    Riconoscere e padroneggiare i  sentimenti
    L’emozioni  sono una parte importante di un intervento terapeutico, sia la loro presenza che  assenza sono segnali molto utili da rilevare. Si pensa spesso che uno degli  obiettivi di una psicoterapia sia la scarica emotiva, una catarsi, una  liberazione da un peso emotivo. Ritengo sia più importante descrivere questo obiettivo come una capacità di riconoscere di essere consapevoli dell’aspetto emotivo ed imparare a padroneggiarlo. Come ad esempio nel caso del figlio, oggi adulto, che riconosce le  emozioni  positive di affetto e sintonia, per lungo tempo allontanate, per un padre  odiato, detestato e colpevolizzato per i suoi comportamenti legati ad una grave  patologia mentale. L’entrare in contatto con le emozioni positive che quel padre era in grado di far sentire al proprio figlio e che nessun altro famigliare era capace di fare provare. Entrare in contatto con la delusione di un padre  fragile, depresso che si ritira dalla vita e dai suoi amori. In questo caso l’emozioni negative hanno lasciato spazio, non solo alla catarsi liberatoria di  un pianto che esprime il riconoscimento di quel padre amato e dell’affetto provato, ma anche una rinnovata sintonia per quella figura rimasta scomoda per  troppo tempo.

    Forza dell’Io e coesione del  Sé
    Per  forza dell’Io utilizzerò la definizione di Heinz Hartmann che spiega questo  concetto come la capacità della persona di adattarsi alla realtà o più  semplicemente la possibilità di padroneggiare gli eventi del mondo esterno e
    interno. Una persona con una buona forza dell’Io per definizione non è né  paralizzata da un senso di colpa eccessivo o irragionevole né vulnerabile alla  messa in atto degli impulsi del momento. Ad aggiungersi alla forza dell’Io vi è  la coesione del Sé cioè la possibilità di accogliere gli stimoli stressanti  senza andare incontro a frammentazione, disorganizzazione del senso d’identità.  Quindi possiamo sicuramente ribadire che tra i risultati di una psicoterapia c’è  sicuramente  l’incremento della  forza dell’Io e della coesione del Sé. “Vogliamo che una persona sia capace di confrontarsi con sfide difficili senza incorrere nell’esperienza interna di frammentazione e annichilimento… possa tollerare gli stati di regressione e destabilizzazione che sono al servizio della crescita” (McWilliams, 2002). 
     
    Il  nostro discorso sui risultati di una psicoterapia è partito dai sintomi proprio  per la loro importanza, spesso anche come fattori scatenati la richiesta  d’aiuto. L’eliminazione e/o riduzione dei sintomi è sicuramente uno dei  risultati di un intervento terapeutico.  Abbiamo visto come il sintomo sia  un’espressione di una complessità e portatore di significati che il processo  psicoterapeutico può cogliere. Un processo che apre inevitabilmente ad aspetti  fondamentali come la conoscenza di Sé, l’identità, l’autostima, l’emozioni, la capacità di agire per la propria crescita. Elementi che nel corso della terapia  si modificano andando a incidere in modo positivo sulla qualità della vita del
    paziente. Obiettivi che caratterizzano l’unicità della persona e ne influenzano  il suo benessere.


    Dott. Alberto Migliore psicologo a Torino 

    BIBLIOGRAFIA

     Bollas,  C. (1987), L’ombra dell’oggetto: psicoanalisi del conosciuto non pensato. Tr.  it. Borla, Roma 1989.
     Frawley-O’Dea, M.G. (1996), Ah yes, I Remember it Well. Or Do I? Paper presentato alla conferenza annuale
    dell’Institute for Psychoanalysis and Psychotherapy of New Jersey, Edison, NJ.
     Hartmann, H. (1958), Psicologia dell’Io e problema  dell’adattamento. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino  1978.
     McWilliams, N. (1999), Il caso clinico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
     SAJA , A., SONNINO, A., STRUMIA, F., “Appunti sulla nosografia dell’isteria”.  Giornale  Italiano di Psicopatologia,
    vol. 4, n. 3, 1998.

    0 Comments
    Forward>>

      Autore

      dott. Alberto Migliore

      Archivio

      Settembre 2021
      Febbraio 2021
      Maggio 2020
      Marzo 2019
      Aprile 2018
      Novembre 2016
      Luglio 2016
      Giugno 2016
      Maggio 2016
      Aprile 2016
      Ottobre 2015
      Maggio 2015
      Aprile 2015
      Dicembre 2013
      Giugno 2013
      Maggio 2013

      Dr. Alberto Migliore iscritto a Medicitalia.it | il motore di ricerca dei medici italiani Segui anche il Blog del Dr.Alberto Migliore su MediciItalia
    Powered by Create your own unique website with customizable templates.