Psicologo Psicoterapeuta Torino e Chieri - Dottore Alberto Migliore
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L’adultescente

30/9/2021

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Il ciclo di vita di un uomo è stato descritto attraverso diversi modelli psicologici che avevano in comune alcune fasi ben definite dell’evolvere del soggetto. Fasi influenzate da importanti cambiamenti nella sfera  biologica, psicologica e ambientale. In estrema sintesi i modelli sicuramente ripercorrevano alcune tappe imprescindibili del ciclo di vita dell’individuo: infanzia, fanciullezza, adolescenza, giovinezza, età adulta, età senile. Oggi questi modelli non sembrano più in grado di descrivere quello che avviene in alcune persone, dove il ciclo evolutivo pare bloccarsi in una nuova fase di confort dove potersi rifugiare. Una fase definita con un neologismo: l’adultescenza. Un neologismo definito, dalla Ruggero (2017), un ossimoro  in quanto condensa l’idea di un processo di crescita che caratterizza la fase adolescenziale  con la stabilità dello sviluppo compiuto con il raggiungimento dell’età adulta. L’adultescenza è uno spazio temporale dilatato che collega la fase dell’adolescenza all’età senile.

Nell’adultescente non viene superata l’onnipotenza adolescenziale del “tutto è possibile” non vi è un riconoscimento dei propri limiti, dei limiti della realtà, non vi è l’accettazione della “mancanza” nella propria soggettività e unicità. Per l’adultescente non ci sono confini ben definiti. A modificare il classico ciclo di vita che porta l’adolescente a diventare adulto, oltre ad aspetti di tipo narcisistico, c’è una cultura postmoderna dove le fragilità, la sensibilità, le malattie, la vecchiaia e la morte vengono rilegate e nascoste come se fossero un’eventualità rara non una condizione della nostra esistenza. Una cultura che tende a eliminare i confini, a mettere tutto in discussione, le ideologie, i valori tradizionali e a vivere una crescente precarietà nelle relazioni e nel lavoro.  Una condizione di precarietà che, se normalmente la ritroviamo nel processo di crescita dell’adolescente, non è caratteristica della fase adulta. Oggi la fase dell’adolescenza non trova un termine, un superamento, protraendo questa condizione di indeterminatezza nella fase che era dell’adulto. Se pur a livello di età anagrafica l’adultescente entra pienamente nella fase adulta, mantiene viva l’idealizzazione del Sé tipica dell’adolescente, con difficoltà ad accettare ciò che si discosta dal proprio ideale con conseguenti sofferenze quando la realtà consegnerà il suo conto.  

Questa condizione impedisce l’assimilazione graduale dei propri limiti, fase fondamentale nel passaggio dall’adolescenza all’età adulta, disincentivando così la capacità creativa nell’affrontare le difficoltà, i fallimenti, rendendo la persona meno pronta a contenere ed elaborare gli scossoni emotivi che caratterizzano il soggiornare nella vita. L’adultescente posticipa l’incontro con il limite un po’ come uno studente posticipa la preparazione ad un importante esame. Un azzardo che seppure nella metafora dello studente rischia “solo” una bocciatura, nell’adultescente il rischio diventa molto più oneroso, ossia l’incapacità di tollerare il fallimento con il relativo “vuoto che si apre” e tutta la sintomatologia (ansioso depressiva) che ne consegue.

Fonti:
RUGGERO I. (2017). C’è ancora qualcuno che vuole diventare adulto? La progressiva adolescentizzazione della società adulta. Rivista di Psicoanalisi, Raffaello Cortina Editore, 3, 17, 673-684.

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L'influenza del bambino sullo stile genitoriale

16/2/2021

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Una ricerca nel campo della psicologia sociale e della personalità, attraverso lo studio dei gemelli, ha rilevato come sia ormai errato osservare la dinamica genitore-figlio come una relazione unidirezionale. "Alla luce delle prove attuali ... è più accurato concettualizzare la genitorialità come un processo transazionale in cui genitori e figli esercitano contemporaneamente un'influenza reciproca e continua", scrivono Mona Ayoub (2018) ed i suoi colleghi dell'Università dell'Illinois di Urbana-Champaign. La genitorialità è spesso concettualizzata in termini di effetti psicologici dei genitori sui figli; di capacità genitoriali che i bambini “subiscono in positivo o in negativo”. Tuttavia la ricerca rileva che i bambini possono svolgere un ruolo attivo nell'influenzare la genitorialità che ricevono. I ricercatori hanno rilevato che il 27% della varianza nei livelli di calore dei genitori, e il 45% della varianza nei livelli di stress genitoriale, era attribuibile alla personalità  dai loro figli. I bambini che avevano punteggi più alti in termini di gradevolezza e coscienziosità tendevano ad avere genitori che generavano maggiore calore, e i bambini con minore gradevolezza avevano genitori che soffrivano di più lo stress.
Ayoub e le sue colleghe hanno evidenziato le implicazioni pratiche delle loro scoperte: "gli interventi genitoriali possono essere più efficaci se vengono trattati sia i genitori, sia i bambini in modo tale che l'intervento sia adeguato alle qualità uniche di entrambe le parti".

Fonti:
http://journals.sagepub.com/doi/abs/10.1177/1948550618784890
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https://digest.bps.org.uk/2018/08/07/how-kids-shape-their-parents-parenting-style/

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Lo stress tossico

20/5/2020

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Quando parliamo di stress tossico non intendiamo un semplice fallire un esame o perdere ad una partita sportiva, stiamo parlando di minacce gravi e/o prolungate. In particolare quando questi traumi sono presenti in un periodo evolutivo delicato quale l’infanzia, questi possono arrivare ad influenzare il nostro sviluppo celebrale. Stiamo parlando di eventi come l’abuso o la negligenza, o il crescere con dei genitori, non supportati, che soffrono di gravi dipendenze o disturbi mentali. La nostra risposta allo stress è funzionale nel salvare le nostre vite da qualcosa di minaccioso, e questo è salutare. Il problema è che quando la risposta allo stress viene attivata ripetutamente può influenzare il nostro sistema cognitivo, il nostro sistema immunitario e persino il modo in cui il nostro DNA viene letto e trascritto. Alte dosi di ormoni dello stress possono inibire il funzionamento esecutivo del cervello e rendere più difficile, per i bambini o gli adulti, esercitare il controllo degli impulsi.
Nei soggetti sottoposti ad uno stress tossico si può rilevare, dalla risonanza magnetica, un restringimento dell'ippocampo (un'area cerebrale importante per la memoria e la regolazione emotiva) e una maggiore dimensione dell'amigdala, che è il centro della paura nel cervello. Questo può rendere iper-vigili ed eccessivamente sensibili alle minacce o alle sfide. Per gli individui esposti ad alte dosi di avversità nell'infanzia il centro del piacere e della ricompensa del cervello - l'area tegumentaria ventrale, quella che risponde agli stimoli delle sostanze psicotrope - può essere influenzato dando una minor risposta agli stimoli del piacere. Queste persone avranno bisogno di stimoli più intensi, con il rischio di un aumento dei comportamenti a rischio e della dipendenza dalle sostanze.
Gli studi dimostrano che quando i bambini ricevono un intervento precoce psicosociale, di alta qualità, le loro scansioni cerebrali sembrano più simili a quelle dei bambini che non sono stati mai maltrattati. C’è il bisogno di informare i genitori e gli operatori sanitari dell'impatto che l'ambiente e le esposizioni traumatiche possono avere sulla loro salute.  Negli studi di ricerca, alcuni tipi di interventi, inclusa la psicoterapia genitore/bambino, possono aiutare a normalizzare i livelli di cortisolo e riequilibrare la risposta allo stress. È importante intervenire con un processo di sensibilizzazione, così come si è fatto per altre campagna di salute pubblica di successo, in modo che le persone comprendano che c'è un problema d’affrontare. Oggi la maggior parte dei genitori è consapevole del fatto che il fumo passivo è davvero negativo per i bambini, tutti devono indossare una cintura di sicurezza, etc. Così come c’è bisogno di una campagna pubblica di informazione sullo stress tossico e sui dati che confermano la sua nocività.

Fonte: https://www.nytimes.com/2018/01/30/opinion/treating-the-lifelong-harm-of-childhood-trauma.html?emc=edit_tnt_20180131&nlid=65327791&tntemail0=y&mtrref=undefined&assetType=opinion


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L’Io deriso, la sintomatologia (che posiziona, che attira l’attenzione, che mette una distanza).

20/3/2019

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Il sintomo in medicina è un fenomeno con cui si può manifestare una malattia, può essere uno stato ansioso o depressivo, un attacco di panico o un disturbo psicosomatico. Descriveremo la sintomatologia, nella sofferenza psicologica, come una forma di comunicazione: fatta di comportamenti, di espressioni fisiche e/o mentali che trasmettono simbolicamente un disagio psichico. Il sintomo come il risultato di un ingranaggio che perde il suo posto ed uscendo segnala una rottura su cui lo psicologo, lo psicoterapeuta deve soffermarsi. Vedremo i sintomi come “forme uniche di comunicazione” che hanno lo scopo di allontanare il soggetto da un’angoscia profonda e di mantenere una forma di sofferenza ancora “sostenibile” evitando così emozioni troppo intense da digerire: “si è di fronte a delle proto-emozioni (o spesso a una proto-sensorialità) che non possono essere trasformate e dunque rese pensabili ed emotivamente vivibili e da cui ci si difende prendendone le distanze e arroccandosi a molta distanza da esse.” Ferro (2007). Ci soffermeremo dunque su quei sintomi che possiamo ritrovare in coloro che devono proteggere una fragilità, un aspetto del proprio Io che possiamo descrivere come “l’Io deriso”: un senso profondo di svalutazione, di vuoto e insicurezza, un senso di frustrazione e inadeguatezza che soggiorna in una dimensione dell’essere, con il “compito di compensare una mancanza affettiva e di far fronte ai sentimenti di impotenza, esclusione e solitudine, inadeguatezza e incapacità di affrontare la realtà e il mondo” (Mancia, 2010). Allora parleremo di quei comportamenti, quelle rigidità che posizionano su un vertice lontano dalla sofferenza, o di quei comportamenti che illuminano il soggetto rendendolo visibile e oscurando aspetti emotivi difficilmente tollerabili, o ancora quelle azioni che mettono una distanza da un profondo senso d’angoscia. Spesso questi comportamenti (azioni e/o pensieri) si sovrappongo nello stesso soggetto con la finalità di allontanare sentimenti di profonda e intollerabile umiliazione minacciando con lo spetro della depressione e facendo stazionare il soggetto in una “rappresentazione artificiale del Sé”.
il sintomo come:
“Il posizionarsi sull’opposto”
Come si comporta la mente quando deve affrontare una verità scomoda, una verità non pensata che ha che fare con emozioni troppo intense per essere contenute. Una modalità che la mente può mettere in atto per non sentire, o meglio sentire da molto, troppo lontano, è posizionarsi “sul contrario”. In reciproco contrasto, l’opposto che tende a ridurre la sofferenza della verità. Allora parliamo di Jenny che si descrive come una donna forte che non sopporta la debolezza, che ama gli sport pericolosi, una donna che fa tutto il possibile per non sentire la paura, il suo senso di fallimento, d’inadeguatezza, d’impotenza ossia il suo opposto. Sensazioni che arrivano da lontano ma che ancora oggi l’invadono con attacchi d’ira davanti ai soggetti deboli che rinunciano al posto di lottare e attacchi d’ansia al solo pensiero di fallire nel lavoro o nella relazione con il suo compagno. Jenny deve rimanere lontana da tutto ciò che l’avvicina ad una verità scomoda, fatta di una sofferenza che lascia senza fiato e deve posizionarsi sul suo opposto nella ricerca di tutto ciò che confermi il suo contrario. Alla ricerca estenuate di risultati che possano disconfermare la sua verità, rilegando in secondo piano aspetti importanti della sua vita come le relazioni. L’aspetto centrale del movimento o “motore narcisistico” diventa raggiungere la vetta per poter vedere dall’alto il senso opprimente di inadeguatezza e di svalutazione del proprio Sé, per non sentire la paura profonda che non sopporta negli altri. Oppure Lucio, una carriera scolastica con lode, una buona posizione lavorativa, ma anche il timore profondo di essere scoperto, di perdere la “sua posizione contraria”. Ad aiutarlo a mantenere la sua posizione opposta alla verità è il controllo ossessivo, un sintomo che deve impedire di perdere ciò che si è faticosamente conquistato ovvero la distanza da una svalutazione profonda del Sé. Per mantenere questo equilibrio patologico la mente di Lucio dovrà controllare ogni foglietto, ogni file, ogni minimo segno che possa far scoprire questa profonda verità. A rappresentare bene la scissione nella mente di Lucio è il sogno della palestra: “entrando negli spogliatoi della palestra incontro un ragazzo fisicamente perfetto, penso che mi assomigli che pure io avrò quello stesso fisico; mi sento molto bene, mi sento pieno e soddisfatto. Prima di immergermi nella mia ora di esercizio vado in bagno e aprendo la porta mi trovo davanti a me stesso, urlo dal dolore, mi vedo completamente deformato, mi sveglio dal terrore”. Ci vorrà tempo e due menti al lavoro perché Lucio riesca ad avvicinarsi prima, e poi a contenere quelle emozioni devastanti che hanno a che fare con la sua storia e suoi vissuti. Una verità allontanata che Lucio ha imparato con il tempo a vedere e a contenere rendendo i sintomi ossessivi non più necessari per la sua mente.
“La richiesta d’attenzione”
I sintomi possono essere utilizzati come razzi segnalatori, segnalano la presenza dal soggetto al posto di una vera soggettività “che non è stata riconosciuta – e ora non è riconosciuta”, che ha fortemente bisogno di una conferma esterna per far funzionare una struttura che sembra esistere solo se è vista dall’altro e mancante di un sufficiente riconoscimento interno. “La segnalazione rivendicativa e risentita del proprio corpo (o mente); una manovra per orientare lo sguardo dell’altro, un modo-choc di tornare a essere visibile…” (Civitarese, 2011). Abbiamo Marco un ragazzo di 16 anni che nella fase adolescenziale sente di perdere la sua impalcatura di figlio perfetto, quello intelligente, quello visto per la sua diversità rispetto ai pari della stessa età “io leggevo libri di letteratura già da piccolo”; “non mi sono mai interessati i discorsi dei miei coetanei… …hanno sempre fatto i complimenti ai miei genitori per la mia intelligenza”. Ai primi sussulti dell’adolescenza e ad un confronto con il mondo degli adulti e con i pari non più vincente, Marco si trova senza quel riconoscimento del “ragazzo capace” che gli aveva creato una maschera stretta ma che gli permetteva di allontanare il vuoto del non essere visto. Marco per non crollare ha bisogno di qualsiasi strumento segnalatore che possa farlo risentire sotto i riflettori, allontanando il vuoto, di un’immagine buia, dei propri limiti non ancora riconosciuti e sinonimo di: abbandono, fratelli preferiti e isolamento. Allora il sintomo diventa esplosivo, uno scoppio fatto di immagini di lesioni al proprio corpo che richiamano l’attenzione di più psicoterapeuti, neuropsichiatri, insegnati e dirigenti scolastici. Dove la maschera narcisistica del “ragazzo capace” viene sostituita dalla maschera del “malato/depresso/poeta maledetto” con lo stesso scopo di sentirsi diverso dagli altri, speciale, riconosciuto, allontanando il senso di vuoto e le emozioni annesse ancora troppo pericolose per una struttura così fragile, dove il bisogno di essere sotto i riflettori rimane l’unico modo che Marco riconosce come atto d’amore.
“La distanza”
La distanza come lontananza psichica, un posto ideale, un lavoro che coinvolge e non fa pensare, allontanando una verità scomoda come nel personaggio di Tolstoy, Aleksej Aleksàndrovič nel romanzo Anna Kerenina. Così descritto: “aveva vissuto e aveva lavorato per tutta la sua vita nella sfera della burocrazia che ha a che fare solo con dei riflessi della vita e, ogni volta che gli capitava di scontrarsi con la vita, se ne ritraeva. Adesso egli provava un sentimento simile a quello di un uomo che, mentre attraversa tranquillamente un ponte teso su un abisso, si accorge improvvisamente che il ponte è crollato e che sotto di lui si spalanca il precipizio. Il precipizio era la vita stessa e il ponte quella vita artificiale che Aleksej Aleksàndrovič aveva sempre vissuto”. Il Ponte è ciò che protegge dal precipizio, che fa sentire lontano il buio della voragine, sentimenti che appartengono ad una verità che fa male, quella che Tolstoy chiama “vita”. Una vita che nel personaggio Aleksej Aleksàndrovič è messa a distanza, allontanando l’onere di affrontare scossoni emotivi dalle relazioni e dagli aspetti interni, mantenendo il personaggio in uno stand-by di vita artificiale; la speranza che non ci siano scossoni in grado di far crollare il ponte, riducendo così la distanza da una verità, che nonostante porti i semi della crescita e della creatività, porta con sé la cruda realtà. La ricerca di una distanza come migliaia di km che allontanano il soggetto da un posto reale verso un ideale compensatorio. Come per Luisa di origini Canadesi (a pochi mesi di vita trasferitasi con i genitori italiani a Milano) che utilizza la nazione di nascita come un approdo ideale da un mare insidioso e angoscioso. Il Canada diventa il contenitore dove tutto è possibile, facile, senza limiti, dove non esistono frustrazioni e dove poter sempre fuggire da un mare emotivo in tempesta ossia la realtà ultima, fatta di profonde frustrazioni e senso di impotenza, dove è stato necessario costruire un contenitore adeguato per poter digerire emozioni molto intese caratterizzanti la storia di vita di Luisa.
Questi sintomi, meccanismi nevrotici, hanno la finalità di irrigidire (posizionare), spostare l’attenzione su altro (attirare l’attenzione), allontanare (mettere una distanza) da una realtà profonda per ora inaccettabile. Il paziente “può scegliere” tra evadere la consapevolezza dell’esperienza emotiva dolorosa o accettare la sua verità rendendosi disponibile all’incontro emotivo (Bion, 1962). Come descrive Mancia (2010), i soggetti sono sensibili agli affetti, sono le forze che fanno muovere, l’amore, la tenerezza, la tolleranza, la disponibilità dei genitori; ma altrettanto tragicamente sensibili alle frustrazioni e alle delusioni che inevitabilmente la realtà oggettiva offre. Sarà quello che Mancia (2010) indica come: “equipaggiamento emotivo del bambino” che insieme all’aiuto che sapranno offrirgli i genitori, gli permetterà di trasformare le frustrazioni e crescere emotivamente e mentalmente. Ma se le condizioni genetiche e ambientali saranno sfavorevoli, esse favoriranno modalità difensive tese a evitare frustrazioni e sofferenza mentale con il risultato della perdita della propria identità e la formazione di un falso Sé.

Bibliografia
Bion, W.R. Apprendere dall’esperienza. Tr. It. Armando, Roma 1972.
Civitarese, G. (2011) La violenza delle emozioni. Raffaello Cortina.
Ferro, A. (2007) Evitare le emozioni, vivere le emozioni. Raffaello Cortina.
Mancia, M. (2010) Narcisismo, Il presente deformato dallo specchio. Bollati Boringhieri.
Sitografia
http://www.migliorepsicologia.com/blog/april-13th-2015

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L’epidemia della solitudine

20/4/2018

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L'isolamento sociale è “un’epidemia crescente”  sempre più riconosciuta come fattore di rischio per la salute dell’individuo con conseguenze fisiche e psicologiche. Dal 1980, la percentuale di adulti che vivono questa condizione è raddoppiata dal 20 per cento al 40 per cento.

Negli Stati Uniti circa un terzo delle persone con un’età superiore a 65  vive da solo, e la metà di quelli oltre gli 85 anni. Spesso sono persone con difficoltà economiche e bassa istruzione a cui si aggiungono disturbi dell'umore come la depressione e i disturbi d’ansia.

Ormai sono numerose le ricerche che suggeriscono che l’isolamento sociale  è  un male per l’uomo. Gli individui con meno connessioni sociali hanno maggior probabilità di un’alterazione, nel ritmo sonno veglia, nel sistema immunitario, e più elevati livelli dell’ormone dello stress. La solitudine negli anziani  può accelerare il declino cognitivo e i disturbi psicologici. Uno studio recente ha individuato che l'isolamento aumenta il rischio di malattie cardiache del 29 per cento e di ictus del 32 per cento.
Un altro studio che analizza dati provenienti da 70 ricerche ha rilevato che gli individui socialmente isolati hanno un rischio del 30 per cento più alto di una riduzione significativa della loro aspettativa di vita.

La solitudine, al pari dell’obesità e del fumo, è un’ importante fattore di rischio per la salute dell’uomo.

La solitudine è un problema particolarmente difficile perché accettare e dichiarare la nostra solitudine porta profondo stigma. Ammettere che siamo soli può far sentire la persona come se avesse fallito in ambiti fondamentali della propria vita: l'appartenenza, l'amore, l'attaccamento. Spesso si prova vergogna, diventa così molto difficile chiedere aiuto.

La ricerca suggerisce che la solitudine non è necessariamente il risultato della mancanza di abilità sociali o di sostegno sociale, ma può essere causata, in parte, dall’insolita sensibilità agli stimoli sociali. Persone sole sono più propense a percepire in modo negativo segnali sociali ambigui, favorendo così il ritiro.
Il dipartimento di psicologia  presso l'Università di Chicago, ha testato diversi approcci per il trattamento della solitudine. Scoprendo che gli interventi più efficaci si sono concentrati su come affrontare le "disadattive interpretazioni dei segnali sociali" - cioè, aiutare le persone a ri-esaminare il modo in cui interagiscono con gli altri ed interpretano i segnali sociali.

 Altri programmi stano nascendo con la finalità di aiutare una fascia di popolazione molto sensibile all’isolamento, gli anziani. La solitudine degli anziani ha diverse radici - spesso derivante dai membri della famiglia che si allontanano e dalla scomparsa dagli amici intimi. Come afferma chi sta vivendo questa fase della vita: "purtoppo il tuo mondo muore prima di te”. Il Dr. Paul Tang della Fondazione Palo Alto Medical ha iniziato un programma chiamato “collegamenti”, uno scambio di servizi cross-generazionale ispirato all'idea che ognuno ha qualcosa da offrire. Il programma funziona permettendo ai membri di inviare una loro offerta: lezioni di chitarra, un partner a scarabeo, un accompagnatore dal medico. Un programma che ha come finalità aiutare le persona ad incontrarsi attraverso un’iniziale offerta di collaborazione. "In America, c’è il bisogno di una scusa per bussare alla porta di un vicino",  "Dobbiamo abbattere queste barriere."
Il programma ha oggi in California centinaia di membri in e ha in programma di espandersi in altre aree del paese.
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Così come è stato ed è ancora per il fumo e per l’obesità, sono fondamentali le iniziative, i programmi di prevenzione, che hanno la finalità di ridurre in modo significativo la solitudine in quanto importante fattore di rischio per la salute fisica e psicologica dell’uomo. Le ricerche hanno ormai sottolineato quanto le connessioni sociali siano un fattore di protezione per il benessere umano. Oggi viviamo un grande paradosso dell’epoca digitale ossia “l’iper-connessione sterile”. Una forma di connsessione che contrasta con il forte senso di solitudine e isolamento che le persone vivono.  Starà compito della società - medici, pazienti, i quartieri e le comunità – lavorare per mantenere i legami dove stanno dissolvendo, e crearne dove non ci sono ancora se si vuole investire sulla qualità di vita delle persone.

Fonte: http://www.nytimes.com/2016/12/22/upshot/how-social-isolation-is-killing-us.html?smid=fb-share&_r=0

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Individualismo e salute mentale

6/11/2016

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Quanto influisce il nostro sistema sociale nell'incrementare la malattia mentale? Ansia, stress, depressione, fobia sociale, disturbi alimentari, autolesionismo colpisco sempre più persone al mondo, coinvolgendo non solo adulti ma anche bambini e adolescenti. Ci sono diverse variabili che entrano in gioco nello sviluppo del disagio psichico, rimane di particolare importanza la variabile sociale e psicologica. Gli esseri umani, mammiferi ultra-sociali, i cui cervelli sono cablati per rispondere ad altre persone, creare legami, mantenere relazioni si trovano ad affrontare un cambiamento economico e tecnologico considerevole, dove, nonostante il nostro benessere sia indissolubilmente legato alla vita degli altri, ci porta ad una competitività sempre più estenuante ed un individualismo estremo. L'occupazione è diventata una lotta per la sopravvivenza con una moltitudine di altre persone disperate che inseguono sempre meno posti di lavoro. Competizioni senza fine in televisione che alimentano aspirazioni impossibili ed illusioni di reali opportunità.

Un consumismo che riempie il vuoto sociale ma lontano dal proteggere da un isolamento sempre più marcato, che intensifica il confronto sociale, al punto in cui, dopo aver consumato tutto il resto, inizia a consumare anche noi. I social media ci riunisce e ci mette da parte, ci permette di quantificare la nostra posizione sociale, di confrontarci in base al numero di amici e persone che ci “seguono”, dove le foto vengono modificate per sembrare ciò che non siamo.

Non c’è da meravigliarsi che in questi mondi interiori solitari, in cui toccante è stato sostituito da ritocco, ci sia una maggior probabilità di incontrare il disagio mentale. Una recente indagine condotta in Inghilterra, suggerisce che una donna su quattro tra i 16 e i 24 soffra di un problema di salute psicologica. Ansia, depressione, fobie o disturbo ossessivo compulsivo colpiscono il 26% delle donne in questa fascia di età. Questo è una vera è propria crisi di salute pubblica.

La “rottura sociale” non è trattata come un evento serio, come può essere un rottura di un arto, questo perché è meno visibile. Ma i neuroscienziati possono dimostrare che il dolore non è meno intenso. Una serie di ricerche suggeriscono che il dolore sociale e il dolore fisico sono elaborati dagli stessi circuiti neurali. Questo potrebbe spiegare perché, in molte lingue, è difficile descrivere l'impatto di rompere legami sociali senza le parole che usiamo per indicare il dolore fisico e le lesioni. Sia negli esseri umani sia in altri mammiferi sociali, il contatto sociale riduce il dolore fisico. Questo è il motivo per cui abbracciamo i nostri figli quando stanno male: l'affetto è un analgesico potente. Gli oppioidi alleviano sia l’agonia fisica sia l'angoscia della separazione. Forse questo spiega il legame tra l'isolamento sociale e la tossicodipendenza.

Gli esperimenti riassunti nella rivista Physiology & Behaviour suggeriscono che, in una scelta obbligata tra dolore fisico e l'isolamento, i mammiferi sociali sceglieranno il primo. Le scimmie deprivate per 22 ore di cibo e di contatto tenderanno a ricongiungersi con i loro compagni prima di mangiare. I bambini che soffrono di trascuratezza emotiva, secondo alcuni esperti, possono subire conseguenze rilevanti per la loro salute mentale. Autolesionismo è spesso usato come un tentativo per alleviare la sofferenza. Il sistema carcerario conosce fin troppo bene, che una delle forme più efficaci di punizione è proprio l’isolamento.

Non è difficile capire quali potrebbero essere le ragioni evolutive per il dolore sociale. La sopravvivenza dei mammiferi sociali migliora quando sono fortemente legati con il resto del branco. Coloro che rimangono isolati ed emarginati hanno più probabilità di essere attaccati dai predatori, o morire di fame. Così come il dolore fisico ci protegge da danni fisici, il dolore emotivo ci protegge da un infortunio sociale. Esso spinge a riconnettersi. Ma molte persone trovano questo quasi impossibile.

È interessante sapere che l'isolamento sociale è fortemente associato con la depressione, il suicidio, l'ansia, l'insonnia, la paura e la percezione di minaccia. È sorprendente scoprire la gamma di malattie fisiche che provoca o aggrava: demenza, ipertensione, malattie cardiache, ictus, minor resistenza ai virus, anche gli incidenti sono più comuni tra le persone cronicamente solitarie. La solitudine ha un impatto sulla salute fisica paragonabile a fumare 15 sigarette al giorno: sembra aumentare il rischio di morte prematura del 26%. Questo, in parte, perché aumenta la produzione dell'ormone dello stress cortisolo, che incide sul sistema immunitario.
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Studi condotti su animali e sull'uomo suggeriscono il conforto psicologico che deriva dal mangiare: l’isolamento riduce il controllo degli impulsi, che potrebbe incidere sulla salute alimentare. Coloro che vengono collocati  nella parte inferiore della scala socioeconomica hanno più probabilità di soffrire di solitudine, potrebbe essere questa una delle spiegazioni per il forte legame tra basso status economico e l'obesità?
Chiunque può vedere l’importante impatto che la tendenza all'individualismo – isolamento può provocare nella salute delle persone. La domanda  allora è perché siamo impegnati in questo delirio di auto-consumo di distruzione ambientale e dislocazione sociale, se tutto ciò che produce è un dolore insopportabile?  Ciò non richiede solo una risposta politica. Si richiede qualcosa di molto più grande: la rivalutazione di un’intera visione del mondo. Di tutte le fantasie che le persone hanno, l'idea che si possa fare da soli è la più assurda e forse la più pericolosa.
 
Fonte: The Guardian, George Monbiot
https://www.theguardian.com/commentisfree/2016/oct/12/neoliberalism-creating-loneliness-wrenching-society-apart


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Il cuore e la bottiglia di Oliver Jeffers

6/7/2016

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Un racconto emozionante, poetico sulla perdita.

Jeffers racconta la storia di una bambina, curiosa, esuberante il cui padre le legge libri affascinanti sul mare e le meraviglie del nostro mondo.
​Assistiamo a queste fantastiche esplorazioni fino a quando, un giorno, ci rendiamo conto che il padre è scomparso – la bambina si ritrova di fronte la sedia vuota.
Con una delicata finezza e l’intensità delle immagini, Jeffers – gioca tra buio e luce, tra pennello e psiche - richiude nel silenzio lo sfogo di emozioni e il vuoto della perdita.
Ma se il dolore è così disorientante e l’emozioni così frantumanti per gli adulti, come fa la bambina di questa storia? Il suo cuoricino è impreparato a gestire questo peso! La bambina non può, e quindi non lo fa.

“…la cosa migliore è mettere il cuore in un luogo sicuro. Solo per il momento. Così lei lo mise in una bottiglia e lo appese al collo. Sembrava sistemasse le cose… almeno in un primo momento".

La bambina con il tempo scopre che bloccare il dolore blocca anche la capacità di amare e di vitalità.

“Anche se, in verità, niente era lo stesso. Ha dimenticato le stelle ... e smesso di sentire, di amare. Non era più piena di tutte le curiosità del mondo..."

Un giorno, mentre cammina sulla spiaggia, dove una volta aveva passeggiato felicemente con il padre, la "ragazza" - ormai una donna adulta - incontra una bambina ancora piena di curiosità, capace di galleggiare con la sua fantasia, una leggerezza che un tempo era stata anche sua. All'improvviso, lei si ricorda di tutto quello che ha perso quando ha rinchiuso la sua perdita.
Così si propone di liberare il suo cuore dalla sua prigione di vetro - ma la bottiglia è stata fortificata da anni di auto-protezione.
La bottiglia non poteva essere rotta. Rimbalzava ma non si rompeva, rimbalzo fino al mare. Fino a quando un bambino, ancora curioso di conoscere il mondo, l’aiuta a tirar fuori dalla bottiglia il suo cuore e a ritrovare il desiderio e la voglia trasmessa dal padre di riscoprire quelle emozioni, fantasie e la gioia di vivere il mondo. La sedia a quel punto non era così vuota.

Fonte: https://www.brainpickings.org/2015/05/14/oliver-jeffers-the-heart-and-the-bottle/
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Psicoterapia Psicoanalitica ed Evidence Based

21/6/2016

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Negli ultimi anni la Psicoterapia Psicoanalitica o Psicodinamica si è sempre più avvicinata all’Evidence Based, ad una pratica basata sulle evidenze o prove d'efficacia. Questo nasce dall’esigenza di verificare empiricamente l'efficacia della psicoterapia, cioè di differenziare il più possibile le terapie che "funzionano" da quelle che "non funzionano".

I ricercatori, attraverso un numero di studi sempre maggiore, pubblicati e citati in diverse riviste psicologiche, psichiatriche e mediche, hanno dimostrato da tempo le prove degli effetti positivi delle terapie psicodinamiche per i vari disturbi psicologici, tra cui la depressione, l'ansia, il disturbo post-traumatico da stress (PTSD), i disturbi alimentari, etc.... Studi su cui si è valutato l'efficacia generale della psicoterapia psicodinamica, l’efficacia a lungo e a breve termine e l'impatto della psicoterapia su psicopatologie specifiche.

Esaminando l'efficacia della psicoterapia psicodinamica a lungo termine (che significa qui almeno un anno o 50 colloqui) nei disturbi mentali complessi, uno studio a partire dal 2011 ha rilevato che a lungo termine la psicoterapia psicodinamica sembra essere più efficace di forme meno intensive di psicoterapia nel trattamento dei disturbi mentali complessi [1]. Un altro articolo [2] su uno studio di 1053 pazienti ha concluso che LTPP (Long-Term Psychoanalytic Psychotherapy) aveva un tasso significativamente più alto di efficienza in termini di definizione del problema, benessere generale e di funzionamento rispetto alle forme brevi di psicoterapia.

Un documento ampiamente citato dal 2010 ha ulteriormente evidenziato l'efficacia generale della psicoterapia psicodinamica [3]. E ha concluso che questa forma di psicoterapia ha un importante impatto positivo sui soggetti, rilevando che i pazienti che hanno affrontato una terapia psicodinamica non solo hanno visto un miglioramento delle loro difficoltà psicologiche durante il trattamento, ma questo miglioramento è continuato con il tempo anche a trattamento concluso.

In un documento del 2008 che ha preso in analisi la depressione, i ricercatori hanno prodotto una visione d'insieme dell'efficacia delle terapie psicoanalitiche e psicodinamiche [4]. Il documento ha esaminato le prove disponibili, e ha concluso che i benefici per i pazienti delle terapie psicodinamiche sono equivalenti a quelle prodotte dagli antidepressivi.

La ricerca è stata condotta anche sull'impatto della psicoterapia psicodinamica sui disturbi psicologici specifici. Uno studio del 2007 ha esaminato gli effetti della psicoterapia psicodinamica nel disturbo di panico [5]. I ricercatori hanno confrontato l'effetto sui pazienti che hanno seguito una psicoterapia psicodinamica rispetto ad un approccio basato su training di rilassamento. I pazienti dello studio sono stati diagnosticati con un disturbo di panico; molti di loro sono stati anche affetti da agorafobia e/o depressione. I partecipanti che hanno ricevuto il trattamento psicodinamico hanno mostrato una riduzione significativamente rilevante dei sintomi di panico rispetto a quelli che hanno ricevono un training di rilassamento, così come un miglioramento del funzionamento psicosociale.

Nel 2011 ricercatori hanno condotto una revisione di studi sugli effetti della psicoterapia psicodinamica a breve termine nei pazienti con disturbo di personalità [6]. Guardando i risultati di otto studi, i ricercatori hanno concluso che la psicoterapia psicodinamica può essere considerata un'opzione di trattamento efficace per una gamma importante di disturbi di personalità, producendo significativi miglioramenti a lungo termine per una grande percentuale di pazienti.

La ricerca è stata fatta anche nel rapporto costo-efficacia della psicoterapia psicodinamica, spesso considerata troppo costosa da finanziare nel settore pubblico [7]. In uno studio di più di 100 pazienti che avevano ricevuto almeno sei mesi di trattamento psichiatrico senza miglioramento, ha trovato attraverso una psicoterapia psicodinamica dei miglioramenti significativi, riducendo i sintomi ed influenzando positivamente il rapporto qualità-prezzo. Non solo la salute mentale dei pazienti è migliorata ma i soggetti analizzati hanno anche trascorso un minor numero di giorni come non-pazienti, riducendo le consultazioni con il medico di famiglia, infermieri e altri soggetti implicati, diminuendo il numero di psicofarmaci assunti. Di conseguenza, il costo aggiuntivo sostenuto attraverso l'utilizzo di un trattamento psicodinamico è stato recuperato nel giro di soli sei mesi.

(Sulla base di una sintesi della ricerca di Jessica Yakeley e Peter Hobson)

[1] Leichsenring, F., Rabung, S. (2011). Long-term psychodynamic psychotherapy in complex mental disorders: Update of a meta-analysis. The British Journal of Psychiatry, 199(1): 15-22.
[2] Leichsenring, F., & Rabung, S. (2008).  Effectiveness of long-term psychodynamic psychotherapy. Journal of the American Medical Association, 300, 1151-1565.
[3] Shedler, J. (2010). The efficacy of psychodynamic psychotherapy. American Psychologist 65(2): 98-109.
[4] Taylor, D. (2008).  Psychoanalytic and psychodynamic therapies for depression: the evidence base.  Advances in Psychiatric Treatment, 14, 401-413.
[5] Milrod, B., et al (2007).  A randomized controlled clinical trial of psychoanalytic psychotherapy for panic disorder.  American Journal of Psychiatry, 164, 265-272.
[6] Town, J.M., Abbass, A., Hardy, G. (2011). Short-term psychodynamic psychotherapy for personality disorder: A critical review of randomized controlled trials. Journal of Personality Disorders, 25(6): 723-740. 
[7] Guthrie, Moorey, Margison et al (1999). Cost-effectiveness of brief psychodynamic-interpersonal therapy in high utilizers of psychiatric services. Archives of General Psychiatry, 56, 519-526.
 
Fonte:http://psychoanalysis.org.uk/resources/evidence-base-of-psychoanalytic-psychotherapy

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Il caso di Pin e il narcisismo

31/5/2016

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L’adesso è l’immagine più intima del passato (Benjamin, 1966)
 
Pin1 è un bambino di circa dieci anni di origini liguri, orfano di madre e con il padre marinaio svanito nel nulla, abbandonato a se stesso e in perenne ricerca di persone che gli possano donare un po’ d’affetto nel vicolo dove vive, o nell'osteria che frequenta per incontrare quegli esseri: “gli adulti” che lo spaventano ma allo stesso tempo lo attraggono con la speranza di basi sicure dove poter approdare.  Il contesto di vita di Pin è la Liguria all’epoca della seconda guerra mondiale e della nascita della Resistenza partigiana.
Pin è un bambino che desidera “…sdraiarsi nella sua cuccetta e stare a occhi aperti e fantasticare… di bande di ragazzi che lo accettino come loro capo, perché lui sa tante cose più di loro, e tutti insieme andare contro i grandi e picchiarli e fare cose meravigliose, cose per cui anche i grandi siano costretti ad ammirarlo ed a volerlo come capo, e insieme a volergli bene e ad accarezzarlo sulla testa. Ma invece lui deve muoversi nella notte solo e attraverso l’odio dei grandi…” (Calvino, 1947, p. 82). 
Nel racconto di Pin emerge un “piccolo uomo” alla ricerca di una figura genitoriale che nella sua vita, per varie ragioni non si è concretizzata: “Sono qua aspetto la tua presenza spero non mi schiaccerai ma spero, spero veramente che ci sarai” (corsivo mio). Pin si guarda attorno e non trova nessuno, chi lo difenderà? chi si prenderà cura di lui? Ma non stiamo parlando solo di aspetti materiali, chi si occuperà del suo sentire di cosa prova e proverà nella scalata della crescita? È come quel paziente che fantastica posti lontani dove “immagina” di essere accolto, atteso, pensato, amato, allontanando quel peso che lo farà sentire sempre, in qualsiasi posto, uno straniero. Invaso da emozioni straniere da cui si allontana attraverso una parvenza di forza, di sicurezza, di armatura protettiva che come un “…sortilegio magico e allucinatorio, imprigiona il vivere, ma libera da asprezze e crudezze della vita, le addomestica, aiuta a superarle, nasconderle e camuffarle quel tanto che basta per sopravvivere” (Morante, 1995, p. 135).
Il destino ha riservato a Pin una condizione di solitudine, figure distanti e incapaci di contenere la sua “vita-lità”. Ed ecco che la sua mente ha uno slancio e non può far altro che allontanare il suo senso di impotenza, di solitudine di infinita sofferenza, attraverso un immaginario di forza onnipotente di “motore narcisistico”2 che macina tutto e porta ad agire nella ricerca di una “verità patologica” che allontani il vuoto relazionale. Qual è il sintomo di Pin? Forse il bisogno opprimente dell’altro, al fine di allontanare il vuoto lasciato dalla mancanza di un oggetto interno capace di contenere le proprie emozioni. Ecco dov’è probabilmente il “sintomo” di Pin, nelle relazioni, si porge attraverso un Sé protettivo, distante, concentrato sulla propria ferita, che necessita di esprimere la sua potenza (sarcasmo pungente) per stupire, per raccogliere consensi ma ottenendo allontanamento, sfruttamento e solitudine.  Come nel mito di Narciso Pin è condannato a cercare l’amore e a “non possedere chi ama”.
Probabilmente questa condizione di ricerca della relazione sta nel fallimento dei processi di rispecchiamento e di soggettivazione, nella difficoltà di acquisire una forma attraverso il contatto con l’altro; una modalità di funzionamento come supporto e rinforzo cercando di mantenere un sé coeso (Ponsi, 2003).
Ma torniamo a Pin e al suo “caso”, nella sua vita si affaccia ma senza la possibilità di un incontro, una figura molto interessante, il comandante di brigata partigiana Kim studente di medicina, probabilmente diverrà “il medico dei cervelli, sarà: uno psichiatra” (Calvino, 1947, p. 345). Un uomo desideroso di logica, di sicurezza, con molti interrogativi irrisolti e un enorme interesse per il genere umano.
Tra le sue riflessioni c’è il perché gente senza divisa né bandiera combatta con tanto furore, un soggetto che si: “...arrangia in mezzo alle storture... …legati come sono alla ruota che li macina. …è l’offesa dalla loro vita, il buio della loro strada, il sudicio delle loro casa, le parole oscene imparate fin da bambini, la fatica di essere cattivi” (Calvino, 1947, p.366 - 367).  Dove “…basta un nulla, un passo falso, un impennamento dell’anima e ci trova dall’altra parte… a sparare con lo stesso furore, con lo stesso odio, contro gli uni o contro gli altri, fa lo stesso.  …che li porta uccidere con la stessa speranza di purificazione, di riscatto (Calvino, 1947, p.367 - 369).  
Anche Pin sta cercando il suo riscatto, anche Pin Ferisce, sta combattendo il suo “conflitto”, il lottare con se stesso nella ricerca di una “nuova relazione” in grado di contenere un vuoto troppo intenso da poter gestire.
Una lotta vuota fatta di fantasie narcisistiche, una coperta fatta di grandiosità che non riesce a riscaldare ma soffoca l’altro e solo in parte capace di coprire una fragilità non ancora riconosciuta.
Una consapevolezza troppo lontana e dolorosa per Pin, non ancora pensata. La consapevolezza di un limite troppo doloroso da vedere, che si affaccia nei pensieri del futuro psichiatra, comandante di brigata.
Kim (il futuro psichiatra) riflettendo su di sé pensa:
«Forse non farò cose importanti, ma la storia è fatta di piccoli gesti anonimi, forse domani morirò, magari prima di quel tedesco, ma tutte le cose che farò prima di morire e la mia morte stessa saranno pezzetti di storia, e tutti i pensieri che sto facendo adesso influiscono sulla mia storia di domani…. » (Calvino, 1947, p.382)

  1. Pin è il bambino protagonista del romanzo di Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno
  2. www.migliorepsicologia.com/blog/april-13th-2015
 
Bibliografia:
Benjamin, W. (1966), Sul concetto di storia. Torino: Einaudi, 1997
Calvino, I. (1947), Il sentiero dei nidi di ragno. Torino, Einaudi
Morante, E. (1995), La storia. Torino: Einaudi
 
 
Internet:
 
http://www.spi-firenze.it/it/index.php?option=com_content&view=article&id=147:narcisismo-e-perversione-relazionale2&catid=83&Itemid=499
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=5408%3A25-ottobre-2014-cmp-narcisismo-oggi-2&catid=425%3Arotante&itemid=373

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J.P. Sartre

3/5/2016

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“Non  importa quello che hanno fatto di noi, importa quello che  facciamo con quello che gli altri hanno fatto di noi”



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