I risultati che una persona vuole raggiungere con un percorso psicoterapeutico possono riguardare più aspetti della vita di un individuo, nella maggior parte dei casi hanno un filo comune che li collega fra di loro che possiamo descrivere bene con, il termine generico, di un senso completo di benessere. Sono diverse le variabili che influenzano il raggiungimento dell’obiettivo o forse sarebbe meglio dire degli obiettivi. Spesso una psicoterapia porta a più risultati. In questo scritto descriverò alcuni degli obiettivi che si possono ottenere con un percorso terapeutico con in mente una precisa tecnica che è quella ad orientamento psicoanalitico.
Partiamo da uno degli elementi più evidenti che possono condurre una persona a richiedere una consulenza con un professionista della salute mentale, come è lo psicoterapeuta, ossia il sintomo. Un’espressione evidente, concreta di sofferenza psicologica che viene esposta attraverso una serie di comportamenti come possono essere i disturbi dell’alimentazione, le ossessioni, le fobie, etc.. Una condizione spesso invasiva ed insopportabile che il paziente chiede di superare. L’attenuazione dei sintomi è forse uno degli scopi più salenti di una terapia, il paziente spesso tende a migliorare con il lavoro terapeutico. Il sintomo porta con sé una complessità difficilmente riducibile ad un semplicistico processo di causa ed effetto e proprio come un quadro astratto porta con sé significati, tratti specifici, emozioni e in alcuni casi esprime anche lo spirito del tempo e della cultura. Per l’influenza del tempo e della cultura userò come esempio l’isteria, nella versione tipica ottocentesca, una serie di sintomi caratterizzati da paralisi degli arti, cecità momentanea, perdita di coscienza e della capacità di parlare. Seguita poi da una fase emozionale molto intensa con azioni imprevedibili, gesti, smorfie che rappresentavano sentimenti molto profondi. Una ritratto di questa sintomatologia ce la presenta bene il regista David Cronenberg, nel suo film A Dangerous Method nell’interpretazione che l’attrice Keira Knightley dà della paziente isterica Sabina Spielrein. Una sintomatologia trasformata nel tempo, così come la sua diagnosi, fino a scomparire nelle più recenti classificazioni, dal DSM IIIR e dall’ICD10, avendo subito un vero e proprio "smembramento" in diverse altre configurazioni nosografiche, perdendo così quella identità che l’ha contraddistinta per oltre un secolo nel rispetto di una riconoscibilità e specificità (SAJA, SONNINO, STRUMIA, 1998). Oggi è molto raro vedere i sintomi dell’isteria così come li vedevano i professionisti della salute mentale nel diciannovesimo secolo.
La sintomatologia psicologica spesso ha radici aggrovigliate che vengono alimentate da più canali: le fasi evolutive, le esperienze di vita, i tratti caratteriali, ne dà una semplice e chiara descrizione di questa non linearità la Mc Williams (2002) con alcuni esempi clinici. La giovane ragazza con un “semplice” disturbo alimentare è in realtà invischiata nelle relazioni di una famiglia perfezionista, e che quindi il suo disturbo alimentare è un’espressione del
fatto che la paziente è “in trappola”; che l’uomo che ha chiesto una terapia di coppia finalizzata a “migliorare la sua comunicazione” con la moglie, in realtà ha un’amante segreta che sta crescendo un figlio che lui non ha riconosciuto. La sintomatologia esprime e porta con sé una complessità che non può essere sottovalutata, questa complessità va compresa e gestita insieme al sintomo nell’ottica di un raggiungimento di una più generale stato di benessere. Ad esempio la donna con disturbi alimentari non vuole solo smettere di vomitare, sintomo prevalente, ma vuole anche arrivare al punto in cui il cibo per lei sia semplicemente cibo, e non un deposito di tentazioni disperate e di un rimando di un sé disgustoso. Così come una persona che ha subito un abuso sessuale durante
l’infanzia vuole cambiare internamente, soggettivamente, e passare dal sentirsi la vittima di un abuso cui è successo di essere anche una persona, al sentirsi una persona cui è successo di subire un abuso (Frawley O’Dea, 1996). Il processo psicoterapeutico porta non solo all’attenuazione dei sintomi come abbiamo descritto sopra ma a una serie di risultati correlati che vengono descritti come lo sviluppo di insight, agency, identità, autostima, capacità di padroneggiare gli affetti, forza dell’io e coesione del Sé, una capacità di amare, lavorare e giocare più in generale un senso completo di benessere (Mc Williams, 2002). Tratteggerò brevemente e separatamente questi obiettivi per darne meglio una visibilità, sapendo bene che fanno parte di un complesso processo legato al benessere individuale, che non è facilmente riducibile nelle sue singole parti.
Partiamo dall’insight, un termine che potremo esprimere come il vedere dentro di sé (in-sight), la conoscenza, un ampliamento del modo di osservare la propria narrazione, un dare voce al “conosciuto non pensato” (Bollas, 1987). Ad esempio la storia di una donna che si descrive forte e indipendente ma che soffre molto per la sua difficoltà nel mantenere una relazione stabile e duratura con un uomo. Complessità relazionale che nasce da alcuni suoi comportamenti come scatti di rabbia, la svalutazione del partner, la mancanza di interesse profondo per l’altro che lei riproduce in modo spontaneo nelle sue storie d’amore senza rendersene conto, con procedure automatiche così come quando guida una macchina o pedala in bicicletta. Per questa donna il pensiero procedurale diventa pensato, conosciuto, quando si passa attraverso l’emozioni, al sentire, al condividere, il forte senso di abbandono, di umiliazione, di inferiorità che prova nelle relazioni. Sentimenti nascosti da un comportamento difensivo di rabbia e svalutazione del partner che protegge dalla sofferenza ma riduce la propria agency, la propria crescita o libertà d’azione, altro obiettivo di una psicoterapia, in questo caso impedendo la realizzazione del desiderio di una relazione stabile.
Abbiamo accennato all’agency come alla facoltà personale di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà, di agire attivamente per il proprio benessere. Allora sarà frequente sentirsi dire dalle persone in terapia frasi come: “non mi lascio più caricare di responsabilità fino a scoppiare”, “accetto meglio il fatto che possa avere dei limiti ”, “ho imparato a dire quello che sento e a condividerlo con gli altri”, “ero troppo concentrato su di me e sulla mia ferita, non davo la giusta attenzione alle persone importanti della mia vita”. Frasi che danno l’idea che le persone possano tornare, anche dopo una forte tempesta, capitani sufficientemente capaci a governare il timone della propria nave.
L’identità, il riconoscerne le sfaccettature, l’essere riconosciuto dall’altro con le proprie caratteristiche che ci rendono unici e differenziati. Integrare parti di noi che non vogliamo riconoscere perché attivano aree di sofferenza emotiva che a volte non si è in grado ancora di comprendere e affrontare. Le difficoltà di accettare il proprio Sé quando è diverso dalle aspettative familiari o gruppali. Capire chi si è per poter affrontare con maggiori strumenti le sfide che troviamo nel nostro percorso. Identità spesso precarie, fragili, aggrappate all’esteriorità che rispecchiano un’immagine tenue del proprio Sé. Un’immagine scolorita di un’identità complessa ma non narrata, semplificata; che si regge attraverso un ruolo lavorativo o famigliare che qualora venisse a mancare lascia un vuoto soverchiante e una sensazione di pezzi da risistemare. Un percorso terapeutico non può che avere a che fare con una conoscenza e un rafforzamento del proprio Sé.
Un altro ingrediente che viene influenzato nell’impasto del lavoro terapeutico è l’autostima che trova nel lavoro e confronto psicologico, attraverso anche il riconoscimento delle proprie imperfezioni e dei propri difetti, una maggior stabilità. L’autostima acquisisce una nuova solidità quando si affrontano i sentimenti di inferiorità, di bassa stima del Sé, a volte ben nascosti da difese narcisistiche, difese che creano un’impalcatura che protegge il Sé fragile a discapito della spontaneità relazionale.
Riconoscere e padroneggiare i sentimenti
L’emozioni sono una parte importante di un intervento terapeutico, sia la loro presenza che assenza sono segnali molto utili da rilevare. Si pensa spesso che uno degli obiettivi di una psicoterapia sia la scarica emotiva, una catarsi, una liberazione da un peso emotivo. Ritengo sia più importante descrivere questo obiettivo come una capacità di riconoscere di essere consapevoli dell’aspetto emotivo ed imparare a padroneggiarlo. Come ad esempio nel caso del figlio, oggi adulto, che riconosce le emozioni positive di affetto e sintonia, per lungo tempo allontanate, per un padre odiato, detestato e colpevolizzato per i suoi comportamenti legati ad una grave patologia mentale. L’entrare in contatto con le emozioni positive che quel padre era in grado di far sentire al proprio figlio e che nessun altro famigliare era capace di fare provare. Entrare in contatto con la delusione di un padre fragile, depresso che si ritira dalla vita e dai suoi amori. In questo caso l’emozioni negative hanno lasciato spazio, non solo alla catarsi liberatoria di un pianto che esprime il riconoscimento di quel padre amato e dell’affetto provato, ma anche una rinnovata sintonia per quella figura rimasta scomoda per troppo tempo.
Forza dell’Io e coesione del Sé
Per forza dell’Io utilizzerò la definizione di Heinz Hartmann che spiega questo concetto come la capacità della persona di adattarsi alla realtà o più semplicemente la possibilità di padroneggiare gli eventi del mondo esterno e
interno. Una persona con una buona forza dell’Io per definizione non è né paralizzata da un senso di colpa eccessivo o irragionevole né vulnerabile alla messa in atto degli impulsi del momento. Ad aggiungersi alla forza dell’Io vi è la coesione del Sé cioè la possibilità di accogliere gli stimoli stressanti senza andare incontro a frammentazione, disorganizzazione del senso d’identità. Quindi possiamo sicuramente ribadire che tra i risultati di una psicoterapia c’è sicuramente l’incremento della forza dell’Io e della coesione del Sé. “Vogliamo che una persona sia capace di confrontarsi con sfide difficili senza incorrere nell’esperienza interna di frammentazione e annichilimento… possa tollerare gli stati di regressione e destabilizzazione che sono al servizio della crescita” (McWilliams, 2002).
Il nostro discorso sui risultati di una psicoterapia è partito dai sintomi proprio per la loro importanza, spesso anche come fattori scatenati la richiesta d’aiuto. L’eliminazione e/o riduzione dei sintomi è sicuramente uno dei risultati di un intervento terapeutico. Abbiamo visto come il sintomo sia un’espressione di una complessità e portatore di significati che il processo psicoterapeutico può cogliere. Un processo che apre inevitabilmente ad aspetti fondamentali come la conoscenza di Sé, l’identità, l’autostima, l’emozioni, la capacità di agire per la propria crescita. Elementi che nel corso della terapia si modificano andando a incidere in modo positivo sulla qualità della vita del
paziente. Obiettivi che caratterizzano l’unicità della persona e ne influenzano il suo benessere.
Dott. Alberto Migliore psicologo a Torino
BIBLIOGRAFIA
Bollas, C. (1987), L’ombra dell’oggetto: psicoanalisi del conosciuto non pensato. Tr. it. Borla, Roma 1989.
Frawley-O’Dea, M.G. (1996), Ah yes, I Remember it Well. Or Do I? Paper presentato alla conferenza annuale
dell’Institute for Psychoanalysis and Psychotherapy of New Jersey, Edison, NJ.
Hartmann, H. (1958), Psicologia dell’Io e problema dell’adattamento. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1978.
McWilliams, N. (1999), Il caso clinico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
SAJA , A., SONNINO, A., STRUMIA, F., “Appunti sulla nosografia dell’isteria”. Giornale Italiano di Psicopatologia,
vol. 4, n. 3, 1998.
Partiamo da uno degli elementi più evidenti che possono condurre una persona a richiedere una consulenza con un professionista della salute mentale, come è lo psicoterapeuta, ossia il sintomo. Un’espressione evidente, concreta di sofferenza psicologica che viene esposta attraverso una serie di comportamenti come possono essere i disturbi dell’alimentazione, le ossessioni, le fobie, etc.. Una condizione spesso invasiva ed insopportabile che il paziente chiede di superare. L’attenuazione dei sintomi è forse uno degli scopi più salenti di una terapia, il paziente spesso tende a migliorare con il lavoro terapeutico. Il sintomo porta con sé una complessità difficilmente riducibile ad un semplicistico processo di causa ed effetto e proprio come un quadro astratto porta con sé significati, tratti specifici, emozioni e in alcuni casi esprime anche lo spirito del tempo e della cultura. Per l’influenza del tempo e della cultura userò come esempio l’isteria, nella versione tipica ottocentesca, una serie di sintomi caratterizzati da paralisi degli arti, cecità momentanea, perdita di coscienza e della capacità di parlare. Seguita poi da una fase emozionale molto intensa con azioni imprevedibili, gesti, smorfie che rappresentavano sentimenti molto profondi. Una ritratto di questa sintomatologia ce la presenta bene il regista David Cronenberg, nel suo film A Dangerous Method nell’interpretazione che l’attrice Keira Knightley dà della paziente isterica Sabina Spielrein. Una sintomatologia trasformata nel tempo, così come la sua diagnosi, fino a scomparire nelle più recenti classificazioni, dal DSM IIIR e dall’ICD10, avendo subito un vero e proprio "smembramento" in diverse altre configurazioni nosografiche, perdendo così quella identità che l’ha contraddistinta per oltre un secolo nel rispetto di una riconoscibilità e specificità (SAJA, SONNINO, STRUMIA, 1998). Oggi è molto raro vedere i sintomi dell’isteria così come li vedevano i professionisti della salute mentale nel diciannovesimo secolo.
La sintomatologia psicologica spesso ha radici aggrovigliate che vengono alimentate da più canali: le fasi evolutive, le esperienze di vita, i tratti caratteriali, ne dà una semplice e chiara descrizione di questa non linearità la Mc Williams (2002) con alcuni esempi clinici. La giovane ragazza con un “semplice” disturbo alimentare è in realtà invischiata nelle relazioni di una famiglia perfezionista, e che quindi il suo disturbo alimentare è un’espressione del
fatto che la paziente è “in trappola”; che l’uomo che ha chiesto una terapia di coppia finalizzata a “migliorare la sua comunicazione” con la moglie, in realtà ha un’amante segreta che sta crescendo un figlio che lui non ha riconosciuto. La sintomatologia esprime e porta con sé una complessità che non può essere sottovalutata, questa complessità va compresa e gestita insieme al sintomo nell’ottica di un raggiungimento di una più generale stato di benessere. Ad esempio la donna con disturbi alimentari non vuole solo smettere di vomitare, sintomo prevalente, ma vuole anche arrivare al punto in cui il cibo per lei sia semplicemente cibo, e non un deposito di tentazioni disperate e di un rimando di un sé disgustoso. Così come una persona che ha subito un abuso sessuale durante
l’infanzia vuole cambiare internamente, soggettivamente, e passare dal sentirsi la vittima di un abuso cui è successo di essere anche una persona, al sentirsi una persona cui è successo di subire un abuso (Frawley O’Dea, 1996). Il processo psicoterapeutico porta non solo all’attenuazione dei sintomi come abbiamo descritto sopra ma a una serie di risultati correlati che vengono descritti come lo sviluppo di insight, agency, identità, autostima, capacità di padroneggiare gli affetti, forza dell’io e coesione del Sé, una capacità di amare, lavorare e giocare più in generale un senso completo di benessere (Mc Williams, 2002). Tratteggerò brevemente e separatamente questi obiettivi per darne meglio una visibilità, sapendo bene che fanno parte di un complesso processo legato al benessere individuale, che non è facilmente riducibile nelle sue singole parti.
Partiamo dall’insight, un termine che potremo esprimere come il vedere dentro di sé (in-sight), la conoscenza, un ampliamento del modo di osservare la propria narrazione, un dare voce al “conosciuto non pensato” (Bollas, 1987). Ad esempio la storia di una donna che si descrive forte e indipendente ma che soffre molto per la sua difficoltà nel mantenere una relazione stabile e duratura con un uomo. Complessità relazionale che nasce da alcuni suoi comportamenti come scatti di rabbia, la svalutazione del partner, la mancanza di interesse profondo per l’altro che lei riproduce in modo spontaneo nelle sue storie d’amore senza rendersene conto, con procedure automatiche così come quando guida una macchina o pedala in bicicletta. Per questa donna il pensiero procedurale diventa pensato, conosciuto, quando si passa attraverso l’emozioni, al sentire, al condividere, il forte senso di abbandono, di umiliazione, di inferiorità che prova nelle relazioni. Sentimenti nascosti da un comportamento difensivo di rabbia e svalutazione del partner che protegge dalla sofferenza ma riduce la propria agency, la propria crescita o libertà d’azione, altro obiettivo di una psicoterapia, in questo caso impedendo la realizzazione del desiderio di una relazione stabile.
Abbiamo accennato all’agency come alla facoltà personale di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà, di agire attivamente per il proprio benessere. Allora sarà frequente sentirsi dire dalle persone in terapia frasi come: “non mi lascio più caricare di responsabilità fino a scoppiare”, “accetto meglio il fatto che possa avere dei limiti ”, “ho imparato a dire quello che sento e a condividerlo con gli altri”, “ero troppo concentrato su di me e sulla mia ferita, non davo la giusta attenzione alle persone importanti della mia vita”. Frasi che danno l’idea che le persone possano tornare, anche dopo una forte tempesta, capitani sufficientemente capaci a governare il timone della propria nave.
L’identità, il riconoscerne le sfaccettature, l’essere riconosciuto dall’altro con le proprie caratteristiche che ci rendono unici e differenziati. Integrare parti di noi che non vogliamo riconoscere perché attivano aree di sofferenza emotiva che a volte non si è in grado ancora di comprendere e affrontare. Le difficoltà di accettare il proprio Sé quando è diverso dalle aspettative familiari o gruppali. Capire chi si è per poter affrontare con maggiori strumenti le sfide che troviamo nel nostro percorso. Identità spesso precarie, fragili, aggrappate all’esteriorità che rispecchiano un’immagine tenue del proprio Sé. Un’immagine scolorita di un’identità complessa ma non narrata, semplificata; che si regge attraverso un ruolo lavorativo o famigliare che qualora venisse a mancare lascia un vuoto soverchiante e una sensazione di pezzi da risistemare. Un percorso terapeutico non può che avere a che fare con una conoscenza e un rafforzamento del proprio Sé.
Un altro ingrediente che viene influenzato nell’impasto del lavoro terapeutico è l’autostima che trova nel lavoro e confronto psicologico, attraverso anche il riconoscimento delle proprie imperfezioni e dei propri difetti, una maggior stabilità. L’autostima acquisisce una nuova solidità quando si affrontano i sentimenti di inferiorità, di bassa stima del Sé, a volte ben nascosti da difese narcisistiche, difese che creano un’impalcatura che protegge il Sé fragile a discapito della spontaneità relazionale.
Riconoscere e padroneggiare i sentimenti
L’emozioni sono una parte importante di un intervento terapeutico, sia la loro presenza che assenza sono segnali molto utili da rilevare. Si pensa spesso che uno degli obiettivi di una psicoterapia sia la scarica emotiva, una catarsi, una liberazione da un peso emotivo. Ritengo sia più importante descrivere questo obiettivo come una capacità di riconoscere di essere consapevoli dell’aspetto emotivo ed imparare a padroneggiarlo. Come ad esempio nel caso del figlio, oggi adulto, che riconosce le emozioni positive di affetto e sintonia, per lungo tempo allontanate, per un padre odiato, detestato e colpevolizzato per i suoi comportamenti legati ad una grave patologia mentale. L’entrare in contatto con le emozioni positive che quel padre era in grado di far sentire al proprio figlio e che nessun altro famigliare era capace di fare provare. Entrare in contatto con la delusione di un padre fragile, depresso che si ritira dalla vita e dai suoi amori. In questo caso l’emozioni negative hanno lasciato spazio, non solo alla catarsi liberatoria di un pianto che esprime il riconoscimento di quel padre amato e dell’affetto provato, ma anche una rinnovata sintonia per quella figura rimasta scomoda per troppo tempo.
Forza dell’Io e coesione del Sé
Per forza dell’Io utilizzerò la definizione di Heinz Hartmann che spiega questo concetto come la capacità della persona di adattarsi alla realtà o più semplicemente la possibilità di padroneggiare gli eventi del mondo esterno e
interno. Una persona con una buona forza dell’Io per definizione non è né paralizzata da un senso di colpa eccessivo o irragionevole né vulnerabile alla messa in atto degli impulsi del momento. Ad aggiungersi alla forza dell’Io vi è la coesione del Sé cioè la possibilità di accogliere gli stimoli stressanti senza andare incontro a frammentazione, disorganizzazione del senso d’identità. Quindi possiamo sicuramente ribadire che tra i risultati di una psicoterapia c’è sicuramente l’incremento della forza dell’Io e della coesione del Sé. “Vogliamo che una persona sia capace di confrontarsi con sfide difficili senza incorrere nell’esperienza interna di frammentazione e annichilimento… possa tollerare gli stati di regressione e destabilizzazione che sono al servizio della crescita” (McWilliams, 2002).
Il nostro discorso sui risultati di una psicoterapia è partito dai sintomi proprio per la loro importanza, spesso anche come fattori scatenati la richiesta d’aiuto. L’eliminazione e/o riduzione dei sintomi è sicuramente uno dei risultati di un intervento terapeutico. Abbiamo visto come il sintomo sia un’espressione di una complessità e portatore di significati che il processo psicoterapeutico può cogliere. Un processo che apre inevitabilmente ad aspetti fondamentali come la conoscenza di Sé, l’identità, l’autostima, l’emozioni, la capacità di agire per la propria crescita. Elementi che nel corso della terapia si modificano andando a incidere in modo positivo sulla qualità della vita del
paziente. Obiettivi che caratterizzano l’unicità della persona e ne influenzano il suo benessere.
Dott. Alberto Migliore psicologo a Torino
BIBLIOGRAFIA
Bollas, C. (1987), L’ombra dell’oggetto: psicoanalisi del conosciuto non pensato. Tr. it. Borla, Roma 1989.
Frawley-O’Dea, M.G. (1996), Ah yes, I Remember it Well. Or Do I? Paper presentato alla conferenza annuale
dell’Institute for Psychoanalysis and Psychotherapy of New Jersey, Edison, NJ.
Hartmann, H. (1958), Psicologia dell’Io e problema dell’adattamento. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 1978.
McWilliams, N. (1999), Il caso clinico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
SAJA , A., SONNINO, A., STRUMIA, F., “Appunti sulla nosografia dell’isteria”. Giornale Italiano di Psicopatologia,
vol. 4, n. 3, 1998.