Psicologo Psicoterapeuta Torino e Chieri - Dottore Alberto Migliore
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La mente e i suoi strumenti, introduzione ai meccanismi di difesa

24/5/2013

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  • Sono numerosi i contributi provenienti dalla psicologia da quella dinamica a quella  cognitiva che ci raccontano, attraverso il lavoro di ricerca e gli studi  clinici, diversi meccanismi mentali che intervengono nella nostra quotidianità e  non solo nella patologia psichica, influenzando la nostra lettura della realtà e  di conseguenza il nostro comportamento e l’adattamento  all’ambiente. Sono strumenti mentali che nella maggior parte  dei casi sono adattivi e ci permettono di affrontare con successo le sfide della  nostra quotidianità anche se in alcune situazioni posso diventare dei veri e  propri bug che causano errori di valutazione e a volte partecipano al  mantenimento di uno stato di sofferenza psicologica.

    Riporteremo, con degli esempi, solo alcuni tra i  più importanti strumenti della nostra mente coinvolti nelle nostre scelte,  decisioni, relazioni, più in generale influenti nella vita sociale, familiare e  lavorativa: i meccanismi di difesa. Strumenti che già dal loro  nome ci delineano la loro funzione ossia difenderci da aspetti “traumatici,  conflittuali” interni (fantasie, pulsioni, pensieri, emozioni, etc) e/o esterni  (persone, oggetti, animali, situazioni, etc) e partecipare alla costruzione del  Sé dell’individuo e al suo equilibrio psichico.

    Rimozione
    Iniziamo con uno dei più famosi ed universali  meccanismi di difesa: la rimozione, non è solamente il  meccanismo di difesa basilare ma è anche quel concetto che pone le basi per la  teoria dell'inconscio freudiano. Possiamo definire la rimozione come l’allontanamento dalla  coscienza dei desideri, pensieri o residui mnestici considerati inaccettabili e  insostenibili dall'Io, così pericolosi per il nostro stato mentale che possono  provocare una perturbazione non tollerabile.
     La nostra mente lavora per noi, ci protegge da  elementi che ritiene troppo dolorosi per il nostro stato mentale. Gli esempi da  fare sono diversi, uno che può anche non essere rilevante sul piano clinico,  considerato da Freud (1901) in Psicopatologia della vita  quotidiana, è la momentanea amnesia. Esempio: un giornalista dimentica il nome  di un politico che sta citando in un contesto in cui è evidente che il  giornalista prova qualche sentimento negativo inconscio verso quella persona.
    Oppure gli atti mancati come il dimenticare di effettuare un colloquio di lavoro perché riattiva lo schema “non mi sento all’altezza, non farò mai nulla di buono” aspettativa appresa probabilmente nelle relazioni famigliari o più in generale sociali che la nostra mente tende a controllare con i strumenti che ha a disposizione.

    Negazione
    Un altro meccanismo interessante, collegato con  la rimozione, è la negazione, un modo di prendere coscienza del  rimosso, in verità è già una revoca della rimozione, non certo però
    un'accettazione del rimosso. Negare alcunché nel giudizio è come dire in  sostanza: "questa è una cosa che preferirei rimuovere" e di conseguenza la nego. La negazione è la variante meno grave del diniego in cui vi è una completa  scotomizzazione del dato di fatto conflittuale, senza alcuna consapevolezza di  ciò.
    Nella negazione di livello nevrotico quello che viene negato è solo l'affetto, mentre il rapporto con la realtà è di norma mantenuto. Un esempio è il “non vedere” alcuni atteggiamenti sadici di un genitore “base sicura” perché questo vorrebbe dire ridefinire gli aspetti affettivo/cognitivo dei propri legami e di conseguenza il proprio equilibrio  psichico. Diversamente il diniego è un meccanismo di difesa considerato molto primitivo e generalmente associato a gravi disturbi della personalità, compresa la psicosi, viene utilizzato quando il pericolo potenziale per il mantenimento della struttura psichica è estremo. l’esperienza è governata dalla convinzione prelogica che “se non lo riconosco non succede”.
    Con il diniego l'individuo esclude dalla coscienza, in modo automatico e involontario, certi aspetti della realtà che altrimenti sarebbero causa di troppa angoscia o dispiacere. Un esempio di diniego è quello in cui una persona nega la gravità di una malattia che può riguardare se stesso oppure il coniuge, il figlio o il genitore. Ci sono dei casi in cui ad essere negata è la morte di una persona cara, come nel caso della signora che molti mesi dopo la morte del marito conservava le stesse abitudini, ad esempio, apparecchiare la tavola per due.

    Idealizzazione
    Passiamo a un altro meccanismo di difesa che è l’idealizzazione, processo mentale mediante il quale la persona costruisce immagini del Sé, di oggetti ed eventi esterni irrealistiche, totalmente positive e onnipotenti. Questo strumento della nostra mente è  piuttosto comune nell’innamoramento, quando vediamo il partner come una persona  senza difetti, perfetta, questo meccanismo potrebbe avere anche delle basi evolutive con l’obiettivo di facilitare la costruzione della relazione di copia e di conseguenza  incrementare le probabilità della perpetuazione della specie umana.
    L’idealizzazione dei genitori è però fondamentale nell’infanzia nella costruzione del Sé del giovane uomo. Nell’ottica di Kohut l’immagine interiorizzata di perfezione del genitore andrà  a modellare la struttura dell’Ideale dell’Io che, con i suoi valori, rappresenta una guida interiore, che spinge l’Io alla realizzazione (…) influenzandone la salute psicologica.

     Identificazione
    Anche il meccanismo di difesa dell’identificazione è importante per lo sviluppo del bambino,  per identificazione si intende un auto-attribuzione ed "assunzione" di  caratteristiche e qualità proprie dell'oggetto stimato e amato. È fondamentale nello sviluppo del bambino che "copierà" caratteristiche dei genitori e di altre persone significative nel corso della sua educazione. In sintesi l’identificazione è un processo  psicologico con cui un soggetto assimila un aspetto, una proprietà, un attributo di un'altra persona e si trasforma totalmente o parzialmente sul modello di quest'ultima. Un'altra forma d’identificazione, che per prima Anna Freud tratta nel libro l'Io e i meccanismi di difesa, descrive un particolare tipo di identificazione, "l'identificazione con l'aggressore", osservando il fatto che tanto i bambini quanto gli adulti si identificano spesso con le persone che essi temono o odiano, soprattutto se simili persone sono in posizione di  potere. Il bambino fa fronte a una persona minacciosa identificandosi con essa e padroneggiando quindi l'angoscia. L’identificazione con l'aggressore: indica l'assumere il ruolo dell'aggressore e dei suoi attributi funzionali, o l'imitarne la modalità aggressiva e comportamentale. Un suo sottotipo particolare è la cosiddetta "sindrome di Stoccolma".
    La “Sindrome di Stoccolma” è una condizione clinica il cui nome origina da un episodio dell’agosto del 1973 quando quattro impiegati di una banca di Stoccolma dopo essere stati presi in ostaggio da due rapinatori per quasi una settimana; dopo la loro liberazione  testimoniarono a favore dei rapinatori. Sono diversi i casi di eventi criminali come abusi e violenze caratterizzati dall’identificazione con l’aggressore. Questo meccanismo per il quale la vittima  solidarizza con il suo carnefice, fino in alcuni casi all’innamoramento, può
    avere una valenza positiva di protezione del soggetto che subisce una violenza.
    In alcuni casi quando la vittima affronta uno stress molto intenso, che supera  il suo livello di tolleranza, dove c’è il rischio di perdere la propria integrità fisica e psicologica si potrebbe innescare un processo d’identificazione ed empatico di alcune caratteristiche cognitive e comportamentali dell’aggressore. Un processo che a livello interno psicologico
    può aiutare ad affrontare l’evento fortemente traumatico e intollerabile, ad un livello esterno, attraverso un comportamento collaborativo e sottomesso, ridurre l’aggressività e la fuga della vittima incrementando la sua aspettativa di vita.

    Formazione reattiva
    Può capitare che quando si presentano impulsi angosciosi e dolorosi, desideri inaccettabili per la nostra coscienza, si attivi il meccanismo di difesa denominato della formazione reattiva  tramite il quale l’individuo evita e si difende accentuando e manifestando la  tendenza opposta sostituendo un desiderio inaccettabile con un suo  opposto come l’esibizionismo coperto da un atteggiamento di pudore, oppure l’ambizione coperta dalla modestia, oppure impulsi d’odio coperti  dall’amore. Ad esempio un bambino che copre la sua gelosia verso il fratellino appena nato attraverso attenzioni esagerate rivolte al neonato (i pizzicotti affettuosi, la vicinanza fisica eccessiva e il controllo) che spesso poco si distinguono da un vero e proprio tormento, ma permettono al bambino di gestire meglio i sentimenti verso il fratellino. A sostegno dei meccanismi reattivi possono essere messi in
    atto dei cerimoniali ossessivi che costituiscono una ulteriore barriera alla manifestazione degli impulsi aggressivi più profondi.

     Proiezione
    Ci sono situazioni dove tendiamo a trasferire all’esterno aspetti che riteniamo inaccettabili per la nostra mente, questi aspetti del nostro Sé vengono attribuiti su un altro oggetto o sull’intero  ambiente. Questo processo mentale viene denominato proiezione è  spesso alla base della paranoia, semplificando molto: le nostre insicurezze,  ostilità, aggressività vengono attribuite, proiettate all'esterno, su altre persone, o sull'intero ambiente, che verrà così  percepito come costantemente ostile e pericoloso per la sopravvivenza dell'individuo.  Un esempio più banale possiamo trovarlo in  alcuni rapporti di coppia, quando il partner esprime poca fiducia e una paura immotivata di tradimento. Nell’ottica della proiezione questa paura può originare da un’insicurezza contornata da impulsi attrattivi, sessuali verso l’esterno di natura extraconiugale. Sentimenti che possono essere  gestiti, dalla nostra mente, con il meccanismo della proiezione (trasferendo sull’altro  le nostre pulsioni). In particolare questo può capitare in quei soggetti i cui impulsi creano conflitto, senso di colpa,  rispetto ad aspetti di natura valoriale come la fedeltà, l’onestà, la correttezza o più in generale una discrepanza rispetto all’immagine che si ha di Sé
    La proiezione insieme allo spostamento sono  meccanismi di difesa collegati alle fobie. Nel famoso caso di Freud del piccolo Hans con la fobia per i cavalli, i contenuti psichici di Hans erano, sì, d’amore nei confronti del padre, ma anche di odio. Il bambino non poteva tollerare la  presa di coscienza di detti vissuti aggressivi verso la figura paterna,  pertanto, li doveva proiettata all’esterno. Un angoscia che una volta proiettata veniva spostata sulla figura del cavallo, che diventa così l’oggetto della fobia  del bambino.

    Spostamento
    Lo spostamento è un processo che ha una funzione di per se positiva non far sgretolare l’impalcatura psichica del soggetto davanti a sentimenti inaccettabili, questi verrebbero spostati su  un oggetto "sostitutivo" che assume il ruolo di oggetto manifesto, o apparente,
    ed è in stretto rapporto simbolico con l'oggetto reale o la rappresentazione mentale che causa l'attivazione di questa difesa. Ecco elencate alcune delle fobie più comuni divise in categorie:

    • Fobia dello spazio
      Si manifesta con la paura di uscire,
      angoscia delle strade, con la paura degli spazi aperti (agorafobia), o degli
      spazi chiusi (claustrofobia).Varietà di questa categoria sono la cosiddetta
      vertigine fobica (paura delle montagne, degli ascensori, dei piani alti); la
      paura dell'oscurità (vissuta come spazio minacciante); dei mezzi di trasporto
      (es. degli aerei o dei treni); paura della folla (ma anche di parlare o
      comparire in pubblico).

    • Fobie come residui della prima infanzia
      Paura dei grossi
      animali conosciuti dal bambino per esperienza diretta o attraverso racconti
      (cani, cavalli, leoni, lupi ecc) immaginati in atteggiamenti minacciosi pronti a
      divorare e inseguire.

    • Fobie come residui della seconda infanzia
      Paura degli
      animali piccoli (topi, insetti ecc.), la cui minaccia per l'integrità del corpo
      genera repulsione.

    Inoltre, il meccanismo dello spostamento lo  possiamo anche trovare nell’atto creativo, dove alcuni aspetti come quelli di natura aggressiva  o sessuale vengono trasformati in attività artistiche come la pittura e la scultura, più accettabili dalla nostra “realtà”.
    Concluderei con due strumenti che evolutivamente sono ritenuti più primitivi ma altrettanto utili nello sviluppo psicologico dell’individuo. Questi sono la scissione e l’identificazione proiettiva.

     Scissione
    La scissione  possiamo descriverla come la separazione degli aspetti in conflitto o  degli stressor,  un meccanismo che permette di tenere divisi  gli  stati affettivi opposti  (parti buone e cattive), spesso vissuti come non  integrabili ("tutto o nulla"). L’individuo affronta i conflitti emotivi considerando se stesso  o gli altri come completamente buoni o completamente cattivi non riuscendo a  integrare le caratteristiche positive o negative di sé e degli altri in immagini  unitarie. “mio padre è una persona magnifica” , “mia madre è una  persona sporca”, spesso lo stesso individuo sarà alternativamente idealizzato e svalutato.  Questi soggetti affrontano la complessità affettiva vissuta come distruttiva annientante dividendo le immagini cariche emotivamente per poterle meglio sopportare.   Ad esempio, una donna con un disturbo di personalità borderline può percepire il  terapeuta totalmente buono, mentre considera stupidi, ostili e indifferenti gli  impiegati amministrativi che lavorano nello stesso contesto.
    Oppure il terapeuta stesso può diventare improvvisamente il bersaglio di una rabbia incontrollata, nel momento in cui il paziente lo vede come una personificazione del male, mentre soltanto la settimana prima lo considerava assolutamente buono. Questo fenomeno può capitare  anche con le persone affettivamente significative.

    La scissione originerebbe evolutivamente per affrontare la complessità emotiva interna del bambino nel rapporto con gli oggetti  esterni e interni fase che la  Melanie Klein ha identificato come schizoparanoide. Un meccanismo che affievolisce la sua importanza nel
    momento in cui il bambino assimila e fa convivere le parti scisse in un unico ambiente capace di mantenere e sostenere la pressione emotiva che nasce dalla mescolanza di aspetti contraddittori del sé e dei rapporti con gli oggetti esterni fase che viene identificata dalla Klein come depressiva.
    La scissione è un meccanismo di difesa con una funzione adattiva per il bambino e che, nell'adolescenza e nell'età adulta, opera una separazione di qualità dell'oggetto o dell'Io, pur non compromettendo l'esame di realtà. Trattandosi di un meccanismo di difesa arcaico, che nasce in senso evolutivo, la scissione può presentare (in alcuni casi e con un impiego massiccio e rigido) aspetti fortemente maladattivi come avviene nelle psicosi.

    Identificazione  proiettiva L’Identificazione  proiettiva è un processo di proiezione  spesso di qualità percepite come "cattive"  (proiezioni di sensi di colpa, invidia, angosce varie, idee depressive, ecc) dell'Io sull'oggetto relazionale, e successiva identificazione al fine di esercitare un controllo (spesso aggressivo) su di esso. Proiettando sull'altro le proprie qualità inaccettabili l'Io può sviluppare l'illusione di poterle dominare dall'esterno. È un meccanismo di difesa complesso, che opera in seguito  ad una scissione.
     Partiamo da un caso clinico tratto da Ogden  [cit., pp. 18-20; originariamente pubblicato sull'Int. J. Psychoanal., 1979, 60: 357-373] letto nel articolo sull’identificazione proiettiva di Paolo  Migone. Il Sig. K era in analisi da circa un anno, e sia al paziente che all'analista la terapia sembrava stagnare. Il paziente si chiedeva ripetutamente se dall'analisi "ci guadagnava qualcosa",  diceva "forse è una perdita di tempo, mi sembra inutile", e così via. Aveva sempre pagato le fatture controvoglia, ma ora aveva incominciato a pagarle  sempre più in ritardo, fino al punto che l'analista incominciò a chiedersi se il  paziente avrebbe potuto interrompere il trattamento lasciando scoperte le  fatture di un mese o due. Inoltre, mentre le sedute si trascinavano, l'analista  pensava a quei colleghi che facevano sedute di 45 minuti anziché di 50 chiedendo le stesse tariffe che chiedeva lui. Una volta, proprio prima dell'inizio di una seduta, l'analista pensò di accorciare l'ora facendo aspettare il paziente un paio di minuti prima di farlo entrare nello studio. Tutto questo inizialmente
    accadde senza che nessuno vi prestasse attenzione, né il paziente né l'analista.
    Gradualmente, l'analista si trovò ad avere difficoltà a finire le sedute in orario a causa di un intenso senso di colpa per il fatto che gli sembrava di non dare al paziente "il valore di quello che lui pagava".  Quando questa difficoltà con gli orari si ripeteva già da alcuni mesi, l'analista gradualmente incominciò a comprendere il suo problema nel mantenere le regole di base del setting: si era sentito avido per il fatto che si aspettava di essere pagato per il suo "inutile" lavoro. Questo sentimento di avidità era talmente forte che se ne  vergognava al punto che era stato spinto a difendersene con l'essere eccessivamente generoso con il suo tempo. Con questa comprensione dei sentimenti che erano stati generati in lui dal paziente, l'analista fu capace di guardare  ora in modo nuovo al materiale clinico. Il padre del Sig. K aveva abbandonato lui e la madre quando egli aveva 15 mesi. Senza mai dirlo esplicitamente, la madre aveva dato la colpa di ciò al paziente. Il sentimento implicitamente trasmesso era che l'avidità del paziente per il tempo, l'energia
    e l'affetto della madre aveva provocato l'abbandono del padre. Di conseguenza il paziente sviluppò un intenso bisogno di sconfessare e negare i sentimenti di avidità. Egli non poteva dire all'analista di desiderare di incontrarlo più frequentemente perché percepiva questo desiderio come avidità la quale avrebbe provocato l'abbandono da parte del padre (transferale) e l'attacco da parte della madre (transferale) che lui vedeva nell'analista. Invece, il paziente insisteva nel considerare l'analista e l'analisi come totalmente indesiderabili e inutili. L'interazione aveva sottilmente generato nell'analista un intenso  sentimento di avidità, che veniva percepito come così inaccettabile che all'inizio anch'egli cercò di negarlo e sconfessarlo. Per l'analista, il primo passo nell'integrare il sentimento di avidità fu quello di percepire se stesso mentre provava il senso di colpa e si difendeva dal sentimento di avidità. Poi poté mobilizzare quell'aspetto di se stesso che era interessato alla  comprensione dei suoi sentimenti di avidità e di colpa, piuttosto che cercare di  negarli, mascherarli, spostarli o proiettarli. Una parte essenziale di questo lavoro psicologico fu la sensazione dell'analista che egli poteva avere sentimenti di avidità e di colpa senza per questo esserne danneggiato. Non erano i sentimenti di avidità dell'analista che interferivano col suo lavoro terapeutico, ma il bisogno di sconfessare tali sentimenti rinnegandoli e mettendoli in una attività difensiva. Più l'analista diventava consapevole di
    questo aspetto di se stesso e del paziente, ed era capace di convivere con esso, più diventava capace di far fronte alle regole temporali e finanziarie della terapia. Riuscì infine a non sentire più il bisogno di nascondere il fatto che era contento di ricevere denaro in cambio del suo lavoro. Dopo un po' di tempo il  paziente, mentre porgeva un assegno (questa volta con puntualità), commentò che l'analista sembrava felice di ricevere "quel bel grasso assegno", e che ciò "non si addiceva molto ad uno psichiatra". L'analista sorrise un po', e disse che in effetti faceva piacere ricevere denaro. Durante questa interazione,  l'accettazione da parte dell'analista dei suoi sentimenti di fame, avidità e  ingordigia, assieme alla sua capacità di integrarli con altri sentimenti di salutare interesse personale e merito, furono resi disponibili per l'internalizzazione da parte del paziente. L'analista a questo scopo scelse di non interpretare al paziente la paura della propria avidità. Invece, la terapia  consistette nel digerire la proiezione e nel renderla disponibile per la  reinternalizzazione attraverso l'interazione terapeutica.
    Si può vedere nel caso riportato le fasi della identificazione proiettiva, la proiezione sull’oggetto relazionale (il terapeuta), in questo caso viene proiettato il sentimento di avidità, proiettato perché ha una valenza conflittuale per il paziente. Questa condizione blocca la terapia, perché il paziente controlla e manipola tale sentimento una volta  plastificato sull’altro, rendendo difficile il lavoro terapeutico. La capacità dell’analista di elaborare tale sentimento di renderlo naturale e innocuo a intaccato uno dei possibili modelli operativi interni che semplificando afferma: “se richiedo troppo, se sono avido, verrò colpevolizzato e abbandonato”.
    Questi sono solo alcuni degli strumenti che la nostra mente può utilizzare per gestire gli stimoli che arrivano dal nostro mondo interno o dalla realtà esterna, una complessità di sollecitazioni che la nostra mente deve saper trattenere, allontanare, incentivare, utilizzare,
    investire, elaborare, distinguere e così a continuare.
    Gabbard (2005) definisce i meccanismi di difesa  come:

     “Meccanismi diretti a  preservare un senso di autostima di fronte a vergogna e vulnerabilità, a garantire un senso di sicurezza quando l’individuo si sente gravemente minacciato da abbandono o alti rischi e a proteggerlo nei confronti dei pericoli esterni”.

     Attività che la nostra mente svolge in modo procedurale, autonomo, caratteristici della struttura dell’Io, inconsci, lontani dalla nostra attenzione. Un’attenzione che rimane deresponsabilizzata dal complesso lavoro che la nostra mente svolge. Un lavoro di organizzazione di semplificazione della realtà che permette all’uomo di mantenere un equilibrio psichico sufficientemente adattivo. Se però i fattori di rischio interni ed esterni aumentano (vulnerabilità biologiche, eventi negativi di tipo psicologico e/o sociale) può capitare che i meccanismi di difesa si irrigidiscano, prevalgano quelli primitivi e non siano più gli strumenti utili e sufficienti al mantenimento di un equilibrio psicologico adeguato alla nostra società, cultura aprendo così alla psicopatologia.
     
  • Bibliografia
  • Gabbard Glen O., (2005), “Introduzione alla psicoterapia psicodinamica”.  Cortina Raffaello, Milano.

    Bowlby J., (1989), “Una base sicura. Applicazioni cliniche della teoria dell'attaccamento”. Cortina Raffaello, Milano.

  • Freud A., (1978), “L’Io e i meccanismi di difesa, tr. It. In Opere di  Anna Freud”, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Freud S., ( 1971), “Psicopatologia della vita quotidiana”.  Boringhieri, Torino.

  •  Klein M., (1978), “Contributo alla psicogenesi degli stati maniaco-depressivi, tr. It. In scritti 1921-1958”. Boringhieri,  Torino.

  • Klein M., (1978), “Note su alcuni meccanismi schizoidi, tr. It. In  Scritti 1921-1958”. Boringhieri, Torino.
  • Kohut H., (1976), “Narcisismo e analisi del sé”. Boringhieri,  Torino.
  •  
  • Migone .,  http://www.psychomedia.it/pm/modther/probpsiter/ruoloter/rt49ip88.htm

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    L’utilità della psicoterapia. I risultati che si possono attendere

    19/5/2013

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    I risultati che una persona vuole raggiungere con un percorso psicoterapeutico  possono riguardare più aspetti della vita di un individuo, nella maggior parte  dei casi hanno un filo comune che li collega fra di loro che possiamo descrivere  bene con, il termine generico, di un senso completo di benessere. Sono diverse  le variabili che influenzano il raggiungimento dell’obiettivo o forse sarebbe  meglio dire degli obiettivi. Spesso una psicoterapia porta a più risultati. In  questo scritto descriverò alcuni degli obiettivi che si possono ottenere con un  percorso terapeutico con in mente una precisa tecnica che è quella ad  orientamento psicoanalitico.
     Partiamo da uno  degli elementi più evidenti che possono condurre una persona a richiedere una  consulenza con un professionista della salute mentale, come è lo psicoterapeuta,  ossia il sintomo. Un’espressione evidente, concreta di sofferenza psicologica  che viene esposta attraverso una serie di comportamenti come possono essere i  disturbi dell’alimentazione, le ossessioni, le fobie, etc.. Una condizione spesso invasiva ed insopportabile che il  paziente chiede di superare. L’attenuazione dei sintomi è forse uno degli scopi  più salenti di una terapia, il paziente spesso tende a migliorare con il lavoro  terapeutico. Il sintomo porta con sé una complessità difficilmente riducibile ad  un semplicistico processo di causa ed effetto e proprio come un quadro astratto  porta con sé significati, tratti specifici, emozioni e in alcuni casi esprime  anche lo spirito del tempo e della cultura. Per l’influenza del tempo e della  cultura userò come esempio l’isteria, nella versione tipica ottocentesca, una  serie di sintomi caratterizzati da paralisi degli arti, cecità momentanea,  perdita di coscienza e della capacità di parlare. Seguita poi da una fase  emozionale molto intensa con azioni imprevedibili, gesti, smorfie che  rappresentavano sentimenti molto profondi. Una ritratto di questa sintomatologia  ce la presenta bene il regista David Cronenberg,  nel suo film A Dangerous Method nell’interpretazione che l’attrice Keira Knightley  dà della paziente isterica Sabina Spielrein. Una sintomatologia trasformata nel tempo, così come la sua diagnosi, fino a scomparire nelle più recenti classificazioni, dal DSM IIIR e  dall’ICD10, avendo subito un vero e proprio "smembramento" in diverse altre  configurazioni nosografiche, perdendo così quella identità che l’ha  contraddistinta per oltre un secolo nel rispetto di una riconoscibilità e  specificità (SAJA, SONNINO, STRUMIA, 1998). Oggi è molto raro vedere i sintomi  dell’isteria così come li vedevano i professionisti della salute mentale nel  diciannovesimo secolo.

    La  sintomatologia psicologica spesso ha radici aggrovigliate che vengono alimentate  da più canali: le fasi evolutive, le esperienze di vita, i tratti caratteriali,  ne dà una semplice e chiara descrizione di questa non linearità la Mc Williams  (2002) con alcuni esempi clinici. La giovane ragazza con un “semplice” disturbo  alimentare è in realtà invischiata nelle relazioni di una famiglia  perfezionista, e che quindi il suo disturbo alimentare è un’espressione del
    fatto che la paziente è “in trappola”; che l’uomo che ha chiesto una terapia di  coppia finalizzata a “migliorare la sua comunicazione” con la moglie, in realtà  ha un’amante segreta che sta crescendo un figlio che lui non ha riconosciuto. La  sintomatologia esprime e porta con sé una complessità che non può essere  sottovalutata, questa complessità va compresa e gestita insieme al sintomo  nell’ottica di un raggiungimento di una più generale stato di benessere. Ad  esempio la donna con disturbi alimentari non vuole solo smettere di vomitare,  sintomo prevalente, ma vuole anche arrivare al punto in cui il cibo per lei sia  semplicemente cibo, e non un deposito di tentazioni disperate e di un rimando di  un sé disgustoso. Così come una persona che ha subito un abuso sessuale durante
    l’infanzia vuole cambiare internamente, soggettivamente, e passare dal sentirsi  la vittima di un abuso cui è successo di essere anche una persona, al sentirsi  una persona cui è successo di subire un abuso (Frawley O’Dea, 1996). Il processo  psicoterapeutico porta non solo all’attenuazione dei sintomi come abbiamo  descritto sopra ma a una serie di risultati correlati che vengono descritti come  lo sviluppo di insight, agency, identità, autostima, capacità di padroneggiare  gli affetti, forza dell’io e coesione del Sé, una capacità di amare, lavorare e  giocare più in generale un senso completo di benessere (Mc Williams, 2002).  Tratteggerò brevemente e separatamente questi obiettivi per darne meglio una  visibilità, sapendo bene che fanno parte di un complesso processo legato al  benessere individuale, che non è facilmente riducibile nelle sue singole  parti.

    Partiamo  dall’insight,  un  termine che potremo esprimere come il vedere dentro di sé (in-sight), la  conoscenza, un ampliamento del modo di osservare la propria narrazione, un dare  voce al “conosciuto non pensato” (Bollas, 1987). Ad esempio la storia di una  donna che si descrive forte e indipendente ma che soffre molto per la sua  difficoltà nel mantenere una relazione stabile e duratura con un uomo.  Complessità relazionale che nasce da alcuni suoi comportamenti come scatti di  rabbia, la svalutazione del partner, la mancanza di interesse profondo per  l’altro che lei riproduce in modo spontaneo nelle sue storie d’amore senza  rendersene conto, con procedure automatiche così come quando guida una macchina  o pedala in bicicletta. Per questa donna il pensiero procedurale diventa  pensato, conosciuto, quando si passa attraverso l’emozioni, al sentire, al  condividere, il forte senso di abbandono, di umiliazione, di inferiorità che  prova nelle relazioni. Sentimenti nascosti da un comportamento difensivo di  rabbia e svalutazione del partner che protegge dalla sofferenza ma riduce la  propria agency, la propria crescita o libertà d’azione, altro obiettivo di una  psicoterapia, in questo caso impedendo la realizzazione  del  desiderio di una relazione stabile.

    Abbiamo  accennato all’agency come alla  facoltà personale di far accadere le cose, di intervenire sulla realtà, di  agire attivamente per il proprio benessere. Allora sarà frequente sentirsi dire  dalle persone in terapia frasi come: “non mi lascio più caricare di  responsabilità fino a scoppiare”, “accetto meglio il fatto che possa avere dei  limiti ”, “ho imparato a dire quello che sento e a condividerlo con gli altri”,  “ero troppo concentrato su di me e sulla mia ferita, non davo la giusta  attenzione alle persone importanti della mia vita”. Frasi che danno l’idea che  le persone possano tornare, anche dopo una forte tempesta, capitani  sufficientemente capaci a governare il timone della propria  nave.

    L’identità, il riconoscerne le  sfaccettature, l’essere riconosciuto dall’altro con le proprie  caratteristiche che ci rendono unici e differenziati. Integrare parti di noi che  non vogliamo riconoscere perché attivano aree di sofferenza emotiva che a volte  non si è in grado ancora di comprendere e affrontare. Le difficoltà di accettare  il proprio Sé quando è diverso dalle aspettative familiari o gruppali. Capire  chi si è per poter affrontare con maggiori strumenti le sfide che troviamo nel  nostro percorso. Identità spesso precarie, fragili, aggrappate all’esteriorità  che rispecchiano un’immagine tenue del proprio Sé. Un’immagine scolorita di un’identità complessa ma non narrata, semplificata; che si regge attraverso un  ruolo lavorativo o famigliare che qualora venisse a mancare lascia un vuoto  soverchiante e una sensazione di pezzi da risistemare. Un percorso terapeutico  non può che avere a che fare con una conoscenza e un rafforzamento del proprio  Sé. 

    Un altro  ingrediente che viene influenzato nell’impasto del lavoro terapeutico è l’autostima che trova nel lavoro e confronto psicologico, attraverso anche il riconoscimento delle proprie  imperfezioni e dei propri difetti, una maggior  stabilità. L’autostima  acquisisce una nuova solidità quando si affrontano i sentimenti di inferiorità,  di bassa stima del Sé, a volte ben nascosti da difese narcisistiche, difese che  creano un’impalcatura che protegge il Sé fragile a discapito della spontaneità  relazionale. 

    Riconoscere e padroneggiare i  sentimenti
    L’emozioni  sono una parte importante di un intervento terapeutico, sia la loro presenza che  assenza sono segnali molto utili da rilevare. Si pensa spesso che uno degli  obiettivi di una psicoterapia sia la scarica emotiva, una catarsi, una  liberazione da un peso emotivo. Ritengo sia più importante descrivere questo obiettivo come una capacità di riconoscere di essere consapevoli dell’aspetto emotivo ed imparare a padroneggiarlo. Come ad esempio nel caso del figlio, oggi adulto, che riconosce le  emozioni  positive di affetto e sintonia, per lungo tempo allontanate, per un padre  odiato, detestato e colpevolizzato per i suoi comportamenti legati ad una grave  patologia mentale. L’entrare in contatto con le emozioni positive che quel padre era in grado di far sentire al proprio figlio e che nessun altro famigliare era capace di fare provare. Entrare in contatto con la delusione di un padre  fragile, depresso che si ritira dalla vita e dai suoi amori. In questo caso l’emozioni negative hanno lasciato spazio, non solo alla catarsi liberatoria di  un pianto che esprime il riconoscimento di quel padre amato e dell’affetto provato, ma anche una rinnovata sintonia per quella figura rimasta scomoda per  troppo tempo.

    Forza dell’Io e coesione del  Sé
    Per  forza dell’Io utilizzerò la definizione di Heinz Hartmann che spiega questo  concetto come la capacità della persona di adattarsi alla realtà o più  semplicemente la possibilità di padroneggiare gli eventi del mondo esterno e
    interno. Una persona con una buona forza dell’Io per definizione non è né  paralizzata da un senso di colpa eccessivo o irragionevole né vulnerabile alla  messa in atto degli impulsi del momento. Ad aggiungersi alla forza dell’Io vi è  la coesione del Sé cioè la possibilità di accogliere gli stimoli stressanti  senza andare incontro a frammentazione, disorganizzazione del senso d’identità.  Quindi possiamo sicuramente ribadire che tra i risultati di una psicoterapia c’è  sicuramente  l’incremento della  forza dell’Io e della coesione del Sé. “Vogliamo che una persona sia capace di confrontarsi con sfide difficili senza incorrere nell’esperienza interna di frammentazione e annichilimento… possa tollerare gli stati di regressione e destabilizzazione che sono al servizio della crescita” (McWilliams, 2002). 
     
    Il  nostro discorso sui risultati di una psicoterapia è partito dai sintomi proprio  per la loro importanza, spesso anche come fattori scatenati la richiesta  d’aiuto. L’eliminazione e/o riduzione dei sintomi è sicuramente uno dei  risultati di un intervento terapeutico.  Abbiamo visto come il sintomo sia  un’espressione di una complessità e portatore di significati che il processo  psicoterapeutico può cogliere. Un processo che apre inevitabilmente ad aspetti  fondamentali come la conoscenza di Sé, l’identità, l’autostima, l’emozioni, la capacità di agire per la propria crescita. Elementi che nel corso della terapia  si modificano andando a incidere in modo positivo sulla qualità della vita del
    paziente. Obiettivi che caratterizzano l’unicità della persona e ne influenzano  il suo benessere.


    Dott. Alberto Migliore psicologo a Torino 

    BIBLIOGRAFIA

     Bollas,  C. (1987), L’ombra dell’oggetto: psicoanalisi del conosciuto non pensato. Tr.  it. Borla, Roma 1989.
     Frawley-O’Dea, M.G. (1996), Ah yes, I Remember it Well. Or Do I? Paper presentato alla conferenza annuale
    dell’Institute for Psychoanalysis and Psychotherapy of New Jersey, Edison, NJ.
     Hartmann, H. (1958), Psicologia dell’Io e problema  dell’adattamento. Tr. it. Bollati Boringhieri, Torino  1978.
     McWilliams, N. (1999), Il caso clinico. Tr. it. Raffaello Cortina Editore, Milano 2002.
     SAJA , A., SONNINO, A., STRUMIA, F., “Appunti sulla nosografia dell’isteria”.  Giornale  Italiano di Psicopatologia,
    vol. 4, n. 3, 1998.

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